mercredi 22 mai 2013

SANT’AGOSTINO

Il Scriba Valdemir Mota de Menezes leggere il testo qui sotto e raccomanda come una lettura illuminante sulla storia della Chiesa. Fonte: http://digilander.libero.it/longi48/Chiesa%20Antica.html SANT’AGOSTINO Agostino è il padre della Chiesa Occidentale il cui pensiero è risuonato nel corso dei secoli fino ai nostri giorni in tutta la Chiesa. Agostano nasce a Tagaste nel 354 e muore vescovo di Ippona nel 430. Suo padre, Patrizio, era un funzionario dell’amministrazione imperiale, fu battezzato poco prima di morire; la madre, Monica, fu, invece, una fervente cristiana e contribuì con le sue preghiere e lacrime alla conversione di Agostino. La vita di Agostino si svolge tra gli ultimi splendori dell’impero romano, sotto Teodosio I, e i primi segni di un inequivocabile tramonto: nel 430, anno della sua morte, Agostino vede la sua Ippona assediata dai Vandali. Tre sono le tappe fondamentali attraverso cui passa la vita di Agostino: - Dalla nascita al battesimo: dal fascino della retorica si converte alla ricerca della sapienza. Viene a contatto con il neoplatonismo e incomincia a intuire l’immaterialità dell’essere e di Dio. Il contatto con le Scritture e la predicazione di Ambrogio lo portano alla conversione definitiva. - Dal battesimo all’episcopato: abbandona la cattedra di retorica che ha a Milano e la quasi certa carriera nell’amministrazione pubblica e si ritira a Tagaste dove conduce una vita da monaco con un gruppo di amici. Alla morte del vescovo di Ippona, Valerio, Agostino che già coadiuvava il suo vescovo, come diacono prima e presbitero poi, viene eletto vescovo di Ippona. - Episcopato: eletto vescovo nel 395 vi rimane per 35 anni fino al 430, anno della sua morte. Durante il suo ministero episcopale non abbandona mai l’orizzonte monastico che coltiverà per tutta la vita. Si dedicò totalmente al suo ministero episcopale affrontando non solo i problemi della vita pastorale della sua diocesi, ma anche i grandi problemi della chiesa africana e in particolare il Manicheismo, Donatismo e Pelagianesimo. Manicheismo Mani è un filosofo persiano vissuto nel III sec., il suo pensiero si radica nello gnosticismo e rispetto a questo non ha nulla di nuovo se non una grande abilità nel sostenerlo e diffonderlo. Secondo mani, tutta la realtà si spiega in forza di due principi: le tenebre e la luce. Le tenebre si esprimono qui sulla terra attraverso la materia, che è, quindi, un principio negativo; mentre la luce si esprime attraverso lo spirito, che è l’area del bene. Il mondo è il luogo storico dove avviene il conflitto tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre, anzi, questo conflitto è proprio dell’uomo per il suo essere composto di spirito e materia. Il principio del bene, al fine di contrastare quello del male e sottrarre l’uomo dal dominio della materia, mette in atto una serie di iniziative salvifiche inviando all’umanità dei grandi profeti per indicare loro la strada della salvezza: Budda, Zoroastro, Gesù Cristo e, da ultimo, lui, Mani. A questo movimento, fondamentalmente gnostico, il Mani dette una struttura paraecclesiastica e un fondamento autogiustificativo del suo pensiero. Agostino affronta il manicheismo attraverso tre passaggi: - Filosofico: sostiene che non esiste un principio del male, poiché esso altro non è che una carenza di bene. - Teologico: le Scritture attestano che la creazione proviene da Dio, quindi, anche la creazione è buona. - Fede – Ragione: non vi è contraddizione tra fede e ragione. Infatti, l’uomo quando nasce si inserisce in un traditum e si fida di quello che gli viene trasmesso. Solo in un secondo momento la ragione procederà alla verifica di quanto ha creduto e lo recepirà come proprio continuando a credere per meglio capire. Da qui l’assioma: Intellego ut credam, credo ut intellegam. Donatismo Il donatismo, nato nel 313, è un problema tutto ecclesiologico e ha coinvolto tutto l’episcopato africano, circa 200 su 400 vescovi. I fatti: nel 313 muore il vescovo di Cartagine e lo sostituisce il vescovo Ceciliano. I vescovi della Numidia si opposero all’elezione di Ceciliano perché consacrato da un vescovo, Felice di Aptungi, che era sospettato di essere un Traditor, cioè di aver consegnato i libri sacri perché fossero bruciati, durante la persecuzione di Diocleziano. Pertanto il vescovo era ritenuto indegno e, quindi, la consacrazione invalida. Da parte dei vescovi della Numidia venne eletto, invece, un altro vescovo, tale Maggiorino, che, sfortunatamente morì due mesi dopo. Lo sostituì il vescovo Donato, elemento di grandi capacità che organizzò la chiesa donatista in opposizione a quella cattolica. Secondo Donato, ciò che definisce la chiesa è la sua santità, nel senso di “chiesa erede dei martiri”, quella chiesa, cioè, che non ha mai ceduto nelle persecuzioni e che inflessibilmente ha sempre espulso i lapsi. Soltanto questa chiesa è abilitata a somministrare validamente i sacramenti e a comunicare la salvezza. Pertanto, ogni battesimo somministrato al di fuori di questa chiesa è invalido. Ciò che sottende tale concezione di chiesa è l’idea che Gesù Cristo ha dato la piena potestas e, quindi, l’auctoritas a gestire una sorta di monopolio della salvezza. Di fronte al donatismo Agostino prende due posizione: - Ricerca i rapporti personali con i vescovi donatisti, cosciente che la questione non era solo dottrinale, ma era anche necessario superare una certa diffidenza attraverso il dialogo. - Dibattito teologico. La chiesa è una realtà complessa che si esplicita in due grandi dimensioni: celeste e terrena. Quanto alla chiesa celeste, essa è pienamente santa perché pienamente e definitivamente in Dio; quanto a quella terrena, essa è santa da parte di Dio, ma da parte degli uomini è una chiesa in continuo cammino di conversione e che vive grazie alla pazienza di Dio e il suo vivere non è sempre ineccepibile. Tale chiesa non ha la potestas, ma solo il ministero. Il suo compito è quella di essere segno della presenza di Dio che attraverso di essa e del suo ministero dona la salvezza agli uomini. Agostino, infine, precisa anche come il cristiano può appartenere alla chiesa. Il suo appartenere si esplicita in due modi: secondo la communio sanctorum e la communio sacramentorum. Questi due modi dovrebbero essere sempre tra loro connessi. Infatti, a motivo della nostra fragilità, può accadere che si partecipi alla communio sacramentorum senza che questa porti con sé la communio sanctorum. In altri termini, si può essere dentro la chiesa visibile, ma non partecipare della vita profonda di questa. Questo schema Agostino lo applica anche alla questione donatista e afferma che il ministro può essere nella chiesa in communio sacramentorum, ma non in communio sanctorum. Ma poiché è sempre Cristo che opera, indipendentemente dalla dignità del ministro, il sacramento rimane valido. Pelagianesimo Pelagio, monaco della Britannia, viene a Roma intorno al 400 e vi trova un cristianesimo vissuto nella mediocrità ed elaborò il desiderio di riformarlo secondo un grande ideale ascetico. Pelagio parte dall’idea che l’uomo, creato libero, è in grado con le sue sole forze di realizzare la volontà di Dio. Così egli pensò l’uomo sotto tre dimensioni: - Posse, come capacità di realizzare; - Velle, come capacità di volere e decidere; - Esse, come capacità di tradurre in azione. Il posse,in quanto capacità di realizzare, ci proviene direttamente da Dio, mentre il velle e l’esse, cioè la capacità di decidere e di attuare, dipendono esclusivamente dall’uomo. In questa prospettiva il peccato di Adamo e la grazia di Cristo sono soltanto due figure valide solo sul piano dell’esemplarità: l’uno ci ha dato il cattivo esempio, mentre l’altro ci porta a conoscenza della volontà di Dio che noi con il nostro velle ed esse possiamo realizzare. Viene, in tal modo svuotato tutto il contenuto salvifico delle due figure. Di conseguenza preghiera e sacramenti sono solo atti di devozione a Dio. Ciò che conta è solo l’impegno della volontà a realizzare le esigenze di Dio. Ciò che sta sotto a questa teologia pelagiana è probabilmente una mentalità stoica: ogni natura ha in sé il suo fine ed è attrezzata per poterlo raggiungere. In ciò si ravvisa la provvidenza di Dio. Agostino comprende che la questione, posta in questi termini, svuota di significato ciò che è vitale per il cristianesimo. Il problema riguarda il modo con cui siamo salvati. Agostino afferma che se Cristo ci ha salvati con la sua morte e risurrezione, ciò sta a significare la nostra incapacità a salvarci con la sola nostra buona volontà. Se così fosse, infatti, potremmo dire con S.Paolo “che se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano” (Gal. 2,21). Pertanto, la Grazia non è soltanto la capacità che l’uomo ha per natura, ma è, invece, l’Amore di Dio che si è offerto all’uomo in Cristo e che continuamente si offre a noi. Pertanto, conclude Agostino, senza grazia noi non potremmo salvarci, anche se rimane vero che l’uomo se non si rende disponibile a tale grazia non si salva. E’, quindi, necessario un atto di libera volontà e di libera accoglienza da parte dell’uomo perché la grazia operi efficacemente. Agostino, pertanto, arriva ad affermare che quel “Dio che ci ha creati senza di noi, non ci salva senza di noi”; pertanto, “grazia di Dio e libertà dell’uomo si sostengono a vicenda”. Quindi Grazia di Dio e Libertà dell’uomo sono produttrici di salvezza quando l’uomo, incontrandosi con Dio, si apre liberamente a Lui. In questo quadro, dunque, Agostino si muove nell’ambito dell’Alleanza, Pelagio in quello della natura. La vicenda del pelagianesimo si conclude con un sinodo tenuto da papa Zosimo nel 418 a Roma in cui si ribadiscono contro il pelagianesimo tre punti fondamentali: - La morte non è un fatto naturale per l’uomo, ma è conseguenza del peccato; si tratta della morte così come l’uomo la sperimenta; - Il battesimo è necessario per la salvezza; mentre Pelagio affermava che i sacramenti sono semplici atti di pietà verso Dio; - La Grazia di Dio è assolutamente necessaria per essere salvati.

CHIESA NEL V° SECOLO

Il Scriba Valdemir Mota de Menezes leggere il testo qui sotto e raccomanda come una lettura illuminante sulla storia della Chiesa. Fonte: http://digilander.libero.it/longi48/Chiesa%20Antica.html LA CHIESA NEL V° SECOLO Nel V° secolo all’interno della Chiesa si verificano significativi cambiamenti. Fino al 397, morte di S.Ambrogio, la Chiesa è uniforme in tutto l’impero romano che forma da coagulante e polo catalizzatore. Successivamente si vengono a creare delle tensioni tra le chiese di area orientale e quella di area occidentale. Cause che favorirono la separazione tra Occidente e Oriente: - Diversificazione linguistica: dal greco, quale lingua ufficiale della Chiesa, si passa al latino. La Chiesa di occidente incomincerà ad ignorare il greco e introduce al proprio interno il latino. Papa Damaso (380) introduce nella liturgia occidentale la lingua latina e incaricherà S.Girolamo a tradurre dal greco la Bibbia; nasce così la Vulgata. Il cambio di lingua modifica il linguaggio e il modo di intendere le cose; si verifica un cambio di cultura e di prospettiva. Così l’Occidente diventa latino, mentre l’Oriente rimane bizantino. - Frattura politica: tra Oriente e Occidente si crea una spaccatura. L’Occidente come impero finisce subito, mentre l’Oriente dura fino al XV° secolo. Questo ha dei riflessi culturali. Si crea, inoltre, una forte avversione dell’Occidente nei confronti dell’Oriente che, a fronte delle invasioni barbariche e al fine di attenuarne la pressione, dà a questi barbari degli stanziamenti in Occidente. Di conseguenza gli orientali pensano che il lungo permanere dei barbari in Occidente abbia anche imbarbarito culturalmente l’Occidente. Ma ciò che crea una più profonda spaccatura tra Occidente ed Oriente sono le rivalse delle varie etnie che compongono l’Impero romano in Occidente e rivendicano le proprie peculiarità linguistiche e culturali in opposizione all’Impero. - Diversa struttura ecclesiale: la scomparsa dell’imperatore da Roma, fa si che il potere imperiale passi nelle mani della Chiesa occidentale, che diventa, pertanto, la naturale erede del vuoto politico lasciato dall’imperatore, che nel 330 aveva lasciato Roma per Costantinopoli. Roma, dunque, e con lei l’occidente ritiene di poter decidere autonomamente, abbandonando di fatto l’imperatore e il suo impero, ma avendone, però, ereditato le strutture e la cultura. - Per l’Oriente, invece, la struttura ecclesiale è quadripatriarcale (Alessandria, Antiochia, Costantinopoli e Gerusalemme), mentre Roma era il quinto patriarcato. - E’ radicato, inoltre, il concetto che le decisioni devono essere sempre comunitarie e concordi. Non si poteva, dunque, pensare che la sola Roma potesse decretare per tutti. Pertanto, ne esce che l’Oriente è comunitario, mentre l’Occidente è monarchico. Un conflitto, che portò ad una prima sospensione di rapporti tra Occidente ed Oriente (404-415), avvenne in occasione dell’esilio di Giovanni Crisostomo, che si era scagliato pubblicamente contro l’imperatrice Eudossia per essersi questa impossessata indebitamente di un latifondo e, nel contempo, contro il vescovo Teofilo di Alessandria chiamato a rispondere per delle vessazioni da lui prodotte contro un gruppo di monaci. Teofilo convocò un sinodo di 36 vescovi egiziani, tranne sette, detto “Sinodo della Quercia”, sobborgo nei pressi di Calcedonia. Questo sinodo condannò Crisostomo con ventinove capi di accusa falsificati. Crisostomo, conoscendo la faziosità del sinodo, per ben tre volte rifiutò di presentarsi e venne, pertanto, deposto nell’agosto del 403 ed esiliato dall’imperatore Arcadio in Bitinia, da dove fu richiamato quasi subito per una sommossa della popolazione di Costantinopoli, di cui Crisostomo era il patriarca. L’anno successivo (9 giugno 404) seguì un secondo esilio a Cucuso, Bassa Armenia, per contrasti insorti con l’imperatrice Eudossia e l’imperatore Arcadio, che lo aveva destituito dalle funzioni ministeriali. A questi esili si oppose la Chiesa di Occidente che dichiarò di non potersi più sentire in comunione con quelle d’Oriente fintanto che Crisostomo non fosse stato ripristinato nelle sue piene funzioni. Tale sospensione di rapporti durò circa 11 anni, dal 404 al 415. Un altro episodio, che provocò il primo vero sisma tra Occidente e Oriente, durato 50 anni (484-534) riguarda l’Editto dell’Unione o Enotico. Dopo il Concilio di Calcedonia (451) le discussioni sulla duplice natura di Cristo erano ben lungi dall’essere sopite e l’impero rischiava di dividersi su questioni religiose. Nei decenni successivi i vari imperatori cercarono di ricondurre l’impero all’unità religiosa, ma inutilmente. Pertanto, nel 482, l’imperatore Zenone, su consiglio del vescovo di Costantinopoli, Acacio, elaborò e prescrisse una formula di unione, cioè l’Enotico, che avrebbe dovuto essere accolta da tutti. Essa rappresentava una sorta di compromesso teologico. Esso si riprometteva di non togliere autorità al Concilio di Calcedonia (451), ma di darne una interpretazione che doveva accontentare le tendenze monofisite moderate. In sostanza, questo Enotico, o Editto dell’Unione (482), mise di fatto tra parentesi il Concilio di Calcedonia. Papa Felice III si oppose respingendo l’Enotico e, in un sinodo romano, Acacio venne messo al bando e scomunicato e così tutti quelli che condividevano le sue idee, compreso, quindi, anche l’imperatore Zenone, benché il suo nome non venisse citato. Al di là di questi episodi, comunque, era il clima che ormai era cambiato. L’Oriente ha prospettive contemplative e ieratiche della realtà; l’Occidente ha una visione pratica e concreta della realtà. Questi due modi di vedere si riflettono molto bene nelle rispettive liturgie: coreografiche e ricche di simbolismo quelle orientali; sobrie e concrete quelle occidentali. Anche le architetture delle chiese orientali e occidentali differiscono tra loro e riflettono il proprio modo di vedere: a pianta rettangolare quelle occidentali; a pianta circolare quelle orientali. Quelle occidentali, con la loro forma rettangolare allungata sul cui fondo c’è il tabernacolo, richiamano l’atteggiamento del cristiano in cammino verso Cristo. Mentre quelle orientali, con la loro forma circolare, tendono a mettere in comunione cielo e terra e invitano il cristiano alla contemplazione del mistero di Dio. Se il IV° secolo è dominato dalle questioni trinitarie (consustanzialità tra Padre, Figlio e Spirito Santo, tre persone in un unico Dio; con lo Spirito che procede dal Padre e dal Figlio, con la questione conseguente del Filioque), il V° secolo fu caratterizzato dalla questione cristologia: come si accordano l’umanità e la divinità di Cristo? La questione fu tutta orientale, lì, infatti, erano i contemplativi. L’Occidente, invece, si preoccupava di aspetti più concreti: che cosa significa per me incontrare Cristo? Che cosa succede in questo incontro? Che cosa devo fare? Anche qui si rispecchiano i due modi diametralmente opposti di porsi: l’uno contemplativo, l’altro pratico e concreto. FORMAZIONE DEI PATRIARCATI (chiese madri) Fino al 150 le comunità cristiane vivevano in piena autonomia e senza sostanziali coordinamenti. Ma con il rapido diffondersi del cristianesimo e il sorgere dei problemi di fede ed eresie gnostiche, che investivano ampie aree della chiesa, nonché la questione, molto sentita, della trasmissione dell’autenticità apostolica, fecero si che delle comunità si rivolgessero alle comunità considerate di origine apostolica e, quindi, di genuina ortodossia. Questo orientamento, tuttavia, fu ben presto superato a causa delle distanze geografiche che si frapponevano tra le numerose comunità ecclesiali locali con le poche comunità a fondazione apostolica. Pertanto, le chiese, per le loro attività pastorali e amministrative, adottarono la suddivisione amministrativa dell’Impero. Nell’ambito di queste vaste regioni si formarono, per prassi storica e non giuridica, tre punti saldi di riferimento: Alessandria, Antiochia e Roma, attorno a cui gravitano vaste aree territoriali. Fanno capo ad : - Alessandria: Egitto e regioni confinanti. - Antiochia : tutto l’ambiente siriano-aramaico - Roma : l’intero occidente latino L’unica grande area in cui non c’era ancora un patriarcato era quella greca. Il vuoto si riempì ben presto, quando Costantino l’11 maggio del 330 elevò la piccola Bisanzio a residenza imperiale. Essa, agli inizi, era solo una sede episcopale secondaria. In quanto sede imperiale, ristrutturata e ampliata, fu denominata Costantinopoli e assunse, quindi, importanza politica e amministrativa di primo grado. L’elezione di Costantinopoli a sede imperiale dà subito importanza alla sede vescovile, che diventa la sede di consultazione degli imperatori per le questioni di fede e religiose in genere, divenendo, in tal modo, anche un importante centro per le delibere religiose imperiali. Sarà proprio il Concilio di Costantinopoli (381), nel III° canone, a decretare “il primato d’onore per il vescovo di Costantinopoli dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la Nuova Roma”. Fu così che dopo il Concilio di Costantinopoli, l’importanza della sede vescovile venne legata all’importanza politica della città. Si pose, quindi, una questione di primato: per la Chiesa orientale esso spettava al vescovo la cui città nell’ordinamento politico era preminente sulle altre. In Occidente, invece, prevale il criterio teologico del “Tu es Petrus…”. Decadute nel VI° e VII° secolo Alessandria e Antiochia, rimangono a contendersi il primato solo Roma e Costantinopoli. Costantinopoli rivendica il primato sia perché lì vi è la sede imperiale e sia perché vi sono sepolte le spoglie di S.Andrea che fu discepolo prima di Pietro e, quindi, Costantinopoli ha da essere prima di Roma. Il canone 28 del Concilio di Calcedonia (451) stabilisce i privilegi del patriarcato di Costantinopoli sugli altri patriarcati di Antiochia ed Alessandria, divenendo così seconda solo a Roma, ma prima in Oriente. Tale posizione, sancita dal canone 28, venne contestata da Roma perché, in tal modo, venivano ridotti i poteri degli altri due patriarcati. Infine, a seguito del crollo di Costantinopoli sotto l’invasione araba del VII° e VIII° secolo, Roma abbandona l’imperatore e si rivolge ai Franchi, potenza occidentale nascente. Con ciò Roma si stacca definitivamente dall’impero d’oriente e dalla Chiesa d’Oriente, separazione che troverà definitiva rottura nel 1054 in seguito alla questione del Filioque. QUESTIONI ESEGETICHE E CRISTOLOGICHE Tra il 390 e il 420 prendono piede due orientamenti teologici differenti: antiocheno e alessandrino, riconoscibili tra loro in riferimento a due aspetti precisi: esegetico e cristologico. Aspetto esegetico: come si legge la Scrittura? La Chiesa d’Oriente, Alessandria, privilegia l’aspetto spirituale di tipo cristologico, per cui si tende a vedere in tutta la Bibbia riferimenti diretti o allegorici a Cristo; mentre la chiesa antiochena, occidentale, privilegia l’aspetto letterale, cioè del testo così come sta scritto. E’ di tipo storico. Accetta il senso tipologico solo per quelle parti dell’A.T. che sono attestate nel N.T. o nella catechesi liturgica battesimale. Aspetto cristologico: la scuola antiochena quando pensa a Gesù, pensa ad una dualità: alla natura umana e a quella divina. Ma il pensare degli antiocheni è concreto, per cui quando si pensa alla natura umana, la si pensa come sussistenza umana (upÒstasij= sostanza, sussistenza); quando si pensa a quella divina, la si pensa come sussistenza divina (upÒstasij= sostanza, sussistenza). Il problema che si pone è come spiegare l’unità delle due nature. Si fa ricorso ad una immagine, quella della inabitazione: il Cristo, Figlio di Dio, è uno perché inabita nell’uomo Gesù, vero uomo, come nel suo tempio. Ne nasce, in tal modo un prÒswpon di unione, cioè un modo di presentarsi come un unico soggetto. Per cui si può schematicamente dire che Gesù Cristo, nuovo Adamo è: VERO UOMO (natura umana + sussistenza umana) In un prÒswpon di unione per inabitazione VERO DIO (natura divina + sussistenza divina) La scuola alessandrina ha una visione dinamica della persona di Gesù: egli è il Verbo di Dio che diventa uomo per noi. Non si pone, quindi, il problema della duplice natura umana e divina, ma si preoccupa di evidenziare come quel Verbo che, prima dell’incarnazione era da sempre presso il Padre, ora ha assunto la carne umana; quindi c’è identità tra il Verbo prima dell’incarnazione e quello dopo l’incarnazione. Tale visione dinamica, dunque, si svolge in due tempi ed è sintetica: prima dell’incarnazione, il Verbo di Dio è presso Dio da sempre; dopo l’incarnazione, il Verbo di Dio è tra noi, grazie all’incarnazione. Prima era presso il Padre; ora proviene da Maria. Per cui alla domanda: chi è Gesù Cristo? L’alessandrino risponde: è il Verbo di Dio che si fa carne. Sinteticamente tale formula potrebbe essere espressa in tal modo: Da sempre nella condizione divina presso il Padre L’IDENTICO VERBO DI DIO E’ Nel tempo nella condizione umana, da Maria Vergine Questa duplice visione cristologica presentava dei punti deboli. Per guanto riguarda gli antiocheni, non si era chiarito bene l’unione delle due nature, come cioè questa avvenisse. Quanto agli alessandrini che, invece, spiegarono bene l’unicità del Verbo incarnato, non riuscirono chiarire bene la distinzione delle due nature. Questa scarsa chiarezza dottrinale portò ad una serie di questioni a cui si dettero varie risposte non sempre dottrinalmente corrette. Nacquero così le prime eresie di tipo cristologico. Le eresie cristologiche, a seconda dell’interpretazione che dettero alla figura di Gesù, si distinsero in docetismo (Gesù ha solo un corpo apparente; si nega, quindi la corporeità di Gesù); apollinarismo (Il Verbo di Dio incarnandosi prende il posto dell’anima; in tal modo viene a distruggersi la vera umanità che è un composto di anima e corpo); monofisismo (in Gesù vi è una sola natura: quella divina che ha assorbito in se la natura umana); Il grosso problema cristologico, tuttavia, scoppiò nel 428 quando Nestorio divenne patriarca di Costantinopoli. Nestorio, monaco antiocheno, grande asceta e desideroso di esattezze teologiche, non accolse bene l’ormai consolidato titolo, soprattutto presso il popolo, di Qšotokoj assegnato a Maria che, a suo avviso, invece, doveva essere riconosciuta soltanto come Cristotokoj, poiché essa, in realtà, genera soltanto l’uomo in cui abita Dio. Le affermazioni di Nestorio si diffusero rapidamente e giunsero ad Alessandria, dove era patriarca Cirillo. Tra i due sorse una fitta corrispondenza teologica con reciproche messe in guardia dal cadere in errore, ma non si giunse a nessuna conclusione. Della controversia tra i due era costantemente informato papa Celestino che, dopo aver convocato un sinodo, dichiarò inaccettabili le affermazioni di Nestorio e gli dette dieci giorni di tempo per ritrattarle. Esecutore della notifica fu lo stesso Cirillo che ne approfittò per aggiungere alle consegne papali dodici anatemismi. Nestorio reagì duramente e a ragione: il suo avversario era diventato anche suo giudice?! Per cui egli ricorse all’imperatore Teodosio II e chiese un concilio che, con il consenso papale, venne concesso. Concilio d i E f e s o: 22 giugno – 31 luglio 431 Il concilio venne aperto il 7 giugno del 431 ad Efeso, ma nel giorno di apertura mancarono tutti i vescovi antiocheni che con varie scuse tardarono il loro arrivo poiché per loro la situazione era fortemente imbarazzante: da un lato si trovavano in difficoltà per difendere Nestorio dato che questi si era spinto troppo oltre; dall’altro non condividevano le definizioni di Cirillo. Questi, vedendo il notevole ritardo, iniziò il concilio con il 22 giugno, senza la presenza di 43 vescovi antiocheni e senza quella dei legati papali. Nestorio venne convocato per ben tre volte, ma, vista la composizione dell’assemblea esclusivamente alessandrina, rifiutò. Venne, pertanto, dichiarato eretico e destituito, mentre a Maria fu confermato il titolo di Qšotokoj. Il 26 giugno arrivarono finalmente gli antiocheni capeggiati dal vescovo Giovanni. Vedendo il concilio già aperto, si irritarono e si rifiutarono di prendervi parte. Fecero una loro riunione a parte e scomunicarono Cirillo e Anemone, vescovo di Efeso, per scorrettezze procedurali. Controbatterono con la scomunica gli alessandrini. Giunsero nel frattempo i legati papali che confermarono il Qšotokoj, ma respinsero le reciproche scomuniche. I due capi delegazione, Cirillo e Giovanni, si resero ben presto conto che la situazione era insostenibile, per cui, al fine di uscirne bene tutti, affidarono al vescovo Acacio di Berea l’elaborazione di una formula unione (433), in cui Cirillo rinuncia a parlare di unione naturale, mentre gli antiocheni accettano il Qšotokoj e abbandonano la categoria dell’Inabitazione a favore di quella dell’unione, per spiegare l’unità di Cristo. Il Monofisismo La definizione nel 433 della formula di unione con cui si concludeva il tormentato concilio di Efeso, non portò certo tranquillità all’interno della Chiesa. Infatti, Eutiche, archimandrita di Costantinopoli, non convinto sulla questione delle due nature di Cristo, affermava che prima dell’unione c’erano due nature distinte, ma dopo l’unione una sola natura. Infatti, l’umanità di Cristo si trova rispetto alla sua divinità come la goccia d’acqua nell’oceano: viene totalmente assorbita. Un sinodo, convocato nel 448 dal patriarca di Costantinopoli, Flaviano, condannò come eretico Eutiche e lo scomunicò. Questi non si rassegnò e per il tramite di Crisafio, ministro di Teodosio II, chiese ed ottenne un secondo concilio ad Efeso nel 449 che per le scorrettezze e la illeberalità con cui fu gestito non approdò a nulla. Infatti in tale concilio venne escluso il Vescovo Teodoreto di Ciro, uno dei maggiori rappresentanti della scuola antiochena e sfavorevole ad Eutiche. Inoltre fu impedito ai legati papali di leggere il Tomus Leonis ad Flavianum. Il concilio fu condannato dallo stesso papa Leone I che lo definì “non concilium sed latrocimium ephesinum” e aderì, invece, alla proposta di Flaviano, di aprire un nuovo concilio che si tenne a Calcedonia. Concilio di Calcedonia: 8 ottobre – 1 nov. 451 Morto Teodosio II, salì sul trono Marciano con sua moglie Pulcheria, ben disposti verso il papa, e aprono il concilio a Calcedonia con presidenza papale. Si posero subito due questioni: - Problema delle persone che favorirono il “latrocinium ephesinum” e primo fra tutti Di oscuro, che aveva collaborato per la riammissione di Eutiche e la condanna di Flaviano. - Problema cristologico: come rispondere al monofisismo di Eutiche. In tal senso venne letto il Tomus Leonis ad Flavianum che venne approvato da tutti con le famose parole “Petrus per Leonem locutus est”. Nella prima seduta si affrontò la questione Dioscoro, che troverà una soluzione nella terza seduta. Nella seconda seduta viene affrontata la questione dottrinale che trovò delle difficoltà, per cui venne affidata ad una apposita commissione l’elaborazione di una formula da sottoporre all’assemblea. Nella terza seduta viene ripresa la questione del personale. Dioscoro, convocato per tre volte al concilio, rifiutò e, pertanto, venne dichiarato deposto per il suo comportamento. Gli altri vescovi furono riammessi dietro pentimento, mentre un gruppo di 13 vescovi dell’Egitto chiese una sospensiva in attesa che venisse eletto il loro patriarca, per timore, poi, di non trovarsi in contrasto con lui. Nella quinta seduta venne votata e promulgata una formula di fede, preparata tra la quarta e quinta seduta. Formula di Calcedonia “… uno e medesimo Cristo signore unigenito (Cirillo); da riconoscersi in due nature (cristologia antiochena), senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili; non essendo venuta meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi, salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona (Tomus Leonis ad Flavianum) e ipostasi; Egli non è diviso o separato in due persone, ma è un unico e medesimo Figlio, unigenito, Dio, verbo e signore Gesù Cristo (Cirillo) …” La formula, suddivisibile in due parti: una di tipo descrittivo si riallaccia ad Efeso e alla tradizione; e una di tipo dottrinale, sopra riportata. Come si può rilevare vengono recepite le formulazioni di Cirillo (cristologia alessandrina); della tesi papale (Tomus Leonis ad Flavianum) e quella della scuola antiochena. Le conseguenze del Concilio di Calcedonia Il concilio di Calcedonia non portò affatto la pace tra le varie fazioni; infatti, le diatribe teologiche proseguirono in modo pericoloso per l’impero che rischiava di frantumarsi. Infatti l’unità dell’impero non era concepibile senza l’unità religiosa che, praticamente, non era raggiungibile. Per alcuni decenni, in vari modi, vi si cimentarono gli imperatori, ma senza esito alcuno. Nell’ambito di questi sforzi va inserito il tentativo di Zenone (482) che cercò di formulare un documento che idealmente doveva sancire la pace religiosa e, quindi, salvaguardare l’unità dell’impero. Zenone, su consiglio del vescovo Acacio di Costantinopoli, formula un documento di unione, l’ EnÒtikon, che doveva essere accolto da tutti. Era in sostanza una formula teologica di compromesso che in realtà scontentò un po’ tutti, anche se guadagnò gli egiziani e i siri, di tendenze monofisite, ma venne, invece, respinta dal papa Felice III (483-492) perché in essa si rinunciava alla formula calcedonese, basata prevalentemente sul Tomus Leonis ad Flavianum e cara all’occidente. Un ulteriore tentativo, quindi fallito. Queste diatribe teologiche insanabili si radicarono profondamente nelle singole comunità e gruppi etnici che portarono ben presto, nel corso del VI sec., alla frantumazione della chiesa d’Oriente. Le cause, tuttavia, non vanno ricercate esclusivamente nelle questioni teologiche, ma esse hanno prevalentemente costituito l’occasione per una scissione dall’impero, tanto che un autore copto contemporaneo, tale Thager, afferma che “lo scisma di religioso ebbe solo lo spunto”. Quindi, due furono fondamentalmente le cause della frantumazione: - Teologiche: per le questioni cristologiche; - Politico-etniche: infatti, ogni chiesa aveva un suo precipuo carattere etnico, cioè era legata ad un popolo con sue caratteristiche linguistiche e culturali che cercava di affrancarsi dall’impero. Inoltre, ogni chiesa è caratterizzata da una propria liturgia che ne costituisce l’identità e la specificità. Esse si sono sostanzialmente cosi distribuite: - Chiesa melchita: accetta Calcedonia (due nature in una persona) - Chiesa nestoriana: due nature distinte e incomunicabili tra loro; Dio opera nell’uomo Cristo così che Gesù è solo uno strumento nelle mani di Dio. - Chiese giacobite, copte,etiopi, armene: sono chiese monofisite eutichiane: prima dell’unione due nature; dopo l’unione la natura umana è assorbita da quella divina. - Uniati: costituiscono raggruppamenti di dissidenti delle precedenti chiese; si uniscono a Roma dal XVI sec. – Per questo sono detti Uniati. Tutte queste chiese sono gerarchicamente strutturate, fornite di un capo supremo a cui sono sottoposti i vescovi, non sposati, i sacerdoti, che, invece, possono essere anche sposati, e i laici. Un ruolo importante ricopre al loro interno il monachesimo da cui provengono i vescovi. Tutte queste chiese riconoscono il valore dei sacramenti che, però, variano quanto al numero all’interno di ogni chiesa. Ognuna di queste chiese è caratterizzata da una sua propria liturgia in cui si riconoscono e che costituisce la loro specifica identità. Pertanto, per queste comunità la liturgia è un elemento importante che ne definisce la personalità.

VITA INTERNA DELLA CHIESA NEL IV° SECOLO

Il Scriba Valdemir Mota de Menezes leggere il testo qui sotto e raccomanda come una lettura illuminante sulla storia della Chiesa. Fonte: http://digilander.libero.it/longi48/Chiesa%20Antica.html LA VITA INTERNA DELLA CHIESA NEL IV° SECOLO La vita interna della Chiesa del IV° secolo è caratterizzata da quattro aspetti: - Il riconoscimento della Chiesa da parte dello Stato e della società; - Il grande conflitto trinitario e dottrinale, in particolare, la questione ariana, durata un sessantennio; - Sviluppo del catecumenato; - Fioritura del monachesimo; Riconoscimento della Chiesa da parte dello Stato Per questo argomento vedi pagg. 32 e 33. La questione trinitaria I problemi dottrinali sviluppatesi nel corso del IV° preoccuparono non poco la Chiesa, che era particolarmente attenta alla correttezza dei contenuti della propria fede sia per fedeltà alla tradizione apostolica e, quindi, a Cristo; sia perché su tali contenuti si basava la vita stessa della Chiesa e di ogni fedele; e, infine, sia perché su questa correttezza si fondava la propria unità e cattolicità, cioè, in definitiva, la propria identità. Le questioni dottrinali, ben lungi dall’essere argomento esclusivo riservato ad una stretta cerchia elitaria di teologi, formavano argomento di discussione e di interesse a livello popolare. Il fatto in sé non è trascurabile in quanto che, grazie a questo interesse diffuso, venivano a crearsi all’interno della Chiesa stessa delle vaste e diffuse aree di interesse per queste questioni che porteranno la Chiesa a serie spaccature al proprio interno, come avvenne per la questione ariana, che la tormentò per un sessantennio, dal 320 al 380 d.C. Le questioni dottrinali relative alla Trinità non sorsero con Ario, ma egli fu quello che incendiò le polveri di un problema che serpeggiava da oltre un secolo all’interno della Chiesa e che tacitamente già aveva creato opposti schieramenti. Ma come sorsero i problemi trinitari e cristologici? Nelle Scritture vengono spesso richiamati i nomi di Dio, Padre, Figlio, Spirito Santo; come mettere in relazione tra loro questi nomi? C’è un Dio solo o sono tre dèi? Tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo quale rapporto intercorre? Oppure modi diversi di chiamare la stessa realtà? Sono vere e proprie persone oppure tre modi diversi attraverso i quali Dio si esprime? La questione non era semplice. Varie furono le soluzioni, quasi tutte eretiche, cioè dottrinalmente deviate, tutte, comunque, preoccupate di salvaguardare l’unicità di Dio. Monarchianesimo (Monoj arcV, un unico principio) Fu un movimento eretico che affermava l’unicità di Dio ed era rigorosamente monoteista. Come, dunque, giustificare la posizione di Gesù che veniva adorato come Dio accanto al Padre? Si crearono, pertanto all’interno del Monarchianesimo due correnti: l’adozionismo e il modalismo. Adozionismo Gli adozionisti affermavano che Gesù era un semplice uomo, ma che nel battesimo presso il fiume Giordano venne adottato da Dio; quindi soltanto il Padre è Dio, mentre Cristo è soltanto un Dio adottato e, quindi, non propriamente vero Dio, ma solo un secondo Dio. Modalismo I modalisti , invece, affermavano che Padre, Figlio e Spirito Santo erano solo modi di manifestarsi dell’unico Dio, svuotando, quindi, le tre persone del loro contenuto essenziale di persone e riducendoli a semplici modi espressivi di Dio. Subordinazionismo Il Subordinazionismo nacque all’interno della scuola alessandrina che ebbe in Origene uno dei suoi fondatori e il maggior interprete della cristologia del Logos. Anche questa scuola, tuttavia, ebbe delle difficoltà nel coordinare i rapporti interni delle tre persone trinitarie. I subordinazionisti, pur affermando la natura divina di Gesù, subordinavano il Verbo al Padre e lo Spirito Santo al Figlio; in tal modo per tutti e tre veniva salvaguardata la natura divina, ma in modo subordinato e dipendente dal loro assoggettamento o subordinazione; quindi, non una natura divina intrinsecamente posseduta, ma condizionata dalla loro dipendenza. Di rigoroso indirizzo subordinazionista fu anche la scuola antiochena, fondata dal presbitero Luciano verso la fine del III° secolo, che morirà martire sotto Diocleziano. A questa scuola si formò Ario e la maggior parte dei capi ariani. La questione ariana Ario (260-336) era presbitero dal 313 presso la chiesa di Baukalis ad Alessandria, in cui era vescovo Alessandro con il suo diacono Atanasio. Venne in conflitto nel 318 con il suo vescovo per aver propagato con prediche e scritti una cristologia rigorosamente subordinazionista. Ario aveva a cuore l’unità di Dio per cui un Gesù Cristo, Figlio di Dio e, quindi, lui stesso Dio, attentava al monoteismo. Ario, pertanto, affermava che : - Il Logos, cioè Gesù Cristo, non è Dio ed ha una natura completamente diversa da Lui. Egli, tuttavia, è pur sempre il primo tra tutte le creature, di gran lunga superiore agli uomini e perciò lo si poteva definire un semi-Dio, ma non gli si poteva attribuire una natura divina vera e propria. - Egli non era eterno, ma fu creato nel tempo; anzi ci fu un tempo in cui il Logos non c’era; Ario fondò e sostenne queste sue affermazioni con alcuni passi della Bibbia e precisamente: - Mc. 13,32 : “Quanto a quel giorno e a quell’ora nessuno li conosce… neppure il Figlio”; - Gv. 14,28 : “… vi rallegrereste che io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me” - Rm. 1,4 : “Costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito… mediante la risurrezione” - Prov. 8,22 “Il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, fin d’allora”. In questo passo si parla della Sapienza, ma da sempre gli antichi interpretarono la Sapienza come Logos. Così, Ario, in buona fede, interpretò il Logos, Gesù Cristo. Ma che cosa ha portato Ario a queste conclusioni? Ario ha in testa lo schema tripartito del mondo : Dio – Logos o secondo Dio – cosmo. Quindi il Figlio-Logos è il Dio secondo in quanto mediatore. In quanto mediatore, Dio e uomo si incontrano in lui, ma rimangono estranei. Ario si accorge di questo e ricorre ad un ragionamento di tipo platonico: il Figlio è in assoluto il migliore di tutti noi, per cui se noi lo imitiamo saliamo a Dio come lui. Alessandro, suo vescovo, gli controbatte: se tu affermi che il Figlio non è Dio, come possiamo diventare figli di Dio nel battesimo, se il Figlio in cui siamo immersi nel battesimo non è Dio? Allora il tutto diventa inutile. Ovviamente, Ario negando la divinità di Cristo e la sua consustanzialità, si poneva automaticamente fuori dalla retta dottrina della Chiesa. Fu indetto un sinodo intorno al 319 o 323 dove Ario fu dichiarato eretico e posto fuori dalla Chiesa. Ario si rifugiò presso il vescovo Eusebio di Nicomedia. Ario non si sottomise e continuò a propagare le sue idee, specialmente attraverso il poemetto Thalia. Nacquero disordini e le divisioni all’interno della Chiesa si accentuarono, così che intervenne l’imperatore Costantino, richiamando all’ordine le parti, ma senza ottenere alcun risultato. Pertanto, Costantino nel 325 convocò a Nicea il primo concilio ecumenico della storia. Il Concilio di Nicea: 20 maggio – 25 luglio 325 Voluto da Costantino, con il consenso di papa Silvestro I° per dirimere la questione trinitaria e cristologica insieme, ebbe inizio il 20 maggio del 325 e terminò il 25 luglio dello stesso anno, durò, quindi, circa due mesi. Vi parteciparono, sembra, 220 vescovi, ma forse furono 318, con riferimento ai 318 servi di Abramo, mentre Eusebio di Cesarea nella sua “Storia ecclesiastica” parla di 250 vescovi; per lo più provenivano dalla parte orientale dell’impero, mentre l’occidente era rappresentato da 5 vescovi e da due legati di papa Silvestro I°, sette persone in tutto. Dopo lunghi e agitati dibattiti vinse la corrente che rappresentava l’ortodossia, cioè la corrente alessandrina. Il Concilio si concluse con la professione di fede sottoscritta da 220 vescovi in cui si affermava: “Noi crediamo …. In Gesù Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito, dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre (omo-ousioj) …. Ma quelli che dicono: Vi fu un tempo in cui egli non esisteva; e: prima che nascesse non era; e che non nacque da ciò che esisteva …. O che il Figlio di Dio possa cambiare o mutare, questi la chiesa cattolica e apostolica condanna.” Il Concilio regolamentò anche in 20 canoni alcuni aspetti della vita interna della Chiesa e della sua struttura. Anche se questi non hanno valore teologico e, quindi, possono essere considerati del tutto marginali rispetto al grande tema del Concilio di Nicea, tuttavia sono, da un punto di vista storico, di grande interesse per la vita della Chiesa del IV° secolo. La confessione di fede, sottoscritta da 220 padri conciliari, venne recepita da Costantino e promulgata come legge imperiale. Si chiudeva così in due mesi circa, dal 20 maggio 325 al 25 luglio dello stesso anno, il Concilio di Nicea. Ma nonostante la concorde condanna conciliare di Ario, le diatribe ripartirono più vive che mai. Per capire come mai il concilio non riuscì a tacitare tutte le polemiche e a por fine alla questione ariana, bisogna capire la mappa dei vescovi all’interno del concilio. C’erano quattro gruppi: - I Monarchiani: sostenitori di un rigoroso monoteismo e unità di Dio, per cui non accettavano un Gesù Cristo pari e uguale a Dio e Dio lui stesso. - Subordinazionisti: che sostenevano che si il Figlio era subordinato al Padre, ma non al punto di essere uguale al Padre e di possederne la natura; - Alessandrini: sostenitori della retta dottrina - Ariani: in accordo con Ario Pomo della discordia era il termine omo-ousioj (consustanziale) per niente digerito dai vescovi orientali che, invece, preferivano il termine omoioj (simile). Si usò, quindi, la formula “simile in tutto” al Padre. Si vennero a profilare così quattro posizioni interne alla Chiesa: - I Niceni : favorevoli all’ omo-ousioj (consustanziale); - Gli Omeusiani : affermavano che il Figlio è omoioj (simile) a Dio, ma ne è distinto; - Gli Omei : affermavano che il Figlio è simile al Padre; - Anomei : affermavano, invece, che il Figlio è dissimile al Padre. A favorire gli strascici polemici ci si mise anche Costantino, che cambiò quasi subito opinione. Nel 328 richiamò dall’esilio il vescovo Eusebio di Nicomedia e con lui ritornò anche Ario che, dopo aver aderito pro forma al simbolo niceno, venne restituito, su ordine imperiale, al suo ministero. A ciò si oppose il vescovo Atanasio, che venne esiliato una prima volta nel 335 a Treviri; seguirono, poi, altri quattro esili sotto vari imperatori; l’ultimo, il quinto, sotto l’imperatore Valente nel 365; ciò provocò una sommossa popolare e, in tal modo, Anastasio poté rientrare definitivamente nella sua città. Il dibattito, quindi, accompagnato da vere e proprie persecuzioni, testimoniate anche dalla lettera dei vescovi radunati nel concilio di Costantinopoli (381) a papa Damaso e ai vescovi occidentali, riprese, sostenuto e difeso da imperatori filoariani, proseguendo fino al 380, quando Teodosio il Grande (379-395), con un editto “Cunctos populos” emanato nel febbraio del 380, dichiarò il Cristianesimo religione di stato e bollò di eresia tutti coloro che si ponevano contro la dottrina cristiana cattolica. In questo sessantennio ariano di lotte teologiche, si profilò una nuova definizione di Trinità, elaborata dai tre grandi Cappadoci: Basilio di Cesarea (330-379), Gregorio nazianzeno (330-390) e Gregorio di Nissa (334-392). Essi affermarono che all’interno della Trinità vi è una sola natura in tre Persone, quindi, un Dio in tre Persone. Essi misero in chiara luce anche la divinità dello Spirito Santo, che, invece, era considerato dagli ariani solo uno spirito incaricato di un ministero, diverso dagli angeli solo per grado. Concilio di Costantinopoli: 1 maggio – luglio 381 Chiarita la relazione tra il Padre e il Figlio, riconosciuta la stessa natura sia al Padre che al Figlio e affermato che il Figlio è Dio alla pari del Padre, rimaneva ora da definire la posizione dello Spirito Santo rispetto al Padre e al Figlio. Questo aspetto, infatti, era rimasto nell’ombra perché tutta l’attenzione era stata concentrata sul Logos. Gli ariani affermavano che lo Spirito era una creatura del Figlio, come egli lo era del Padre. Anzi, per la verità, sostenevano, lo Spirito Santo era uno degli spiriti incaricati di un ministero, diverso dagli angeli solo per grado. A fronte di tale posizione, S.Atanasio scrisse ben quattro lettere ad un vescovo ariano in difesa della divinità e consustanzialità dello Spirito Santo rispetto alle prime due persone. In tal senso vi furono dei sinodi, nel 362 ad Alessandria, in cui S.Atanasio proclamò lo Spirito Santo “della stessa sostanza e divinità del Padre e del Figlio”; e successivamente altri ancora ad Alessandria e a Roma. A sostegno della tesi di Atanasio vi furono i tre Cappadoci, Basilio di Cesarea, Gregorio nisseno e Gregorio nazianzeno, che confutarono acutamente l’eresia. La questione, ormai annosa e insolubile, sfociò in un secondo concilio ecumenico, quello di Costantinopoli nell’anno 381, che durò circa tre mesi, dal 1 maggio al luglio del 381. Esso fu convocato dall’imperatore Teodosio I° e vi parteciparono 150 vescovi delle sole chiese di oriente. Successivamente, nel 382, i Padri conciliari scrissero una lettera a papa Damaso I° e ai vescovi della chiesa di occidente in cui esposero sinteticamente la formulazione raggiunta sullo Spirito Santo : “Questa fede … ci insegna a credere nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cioè in una sola divinità, potenza, sostanza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in una uguale dignità, e in un potere coeterno, in tre perfettissime ipostasi, cioè in tre perfette persone, …” Il Simbolo costantinopolitano recepì quello niceno e aggiunse per quanto riguarda lo Spirito Santo: “Crediamo anche nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, che procede dal Padre; che con il Padre e il Figlio deve essere adorato e glorificato, ed ha parlato per mezzo dei Profeti”. Come si può rilevare, le chiese di oriente concepivano lo Spirito Santo come procedente “dal Padre attraverso il Figlio”, mentre per l’Occidente lo Spirito santo procedeva “dal Padre e dal Figlio”. Quando in Occidente si diffuse la formula con il “Filioque” lo si ritenne semplicemente una interpretazione; ma l’Oriente considerò, invece, questa introduzione come una adulterazione del Simbolo apostolico e incolpò l’Occidente di eresia. Il Filioque diverrà così la causa prima dello scisma del 1054 tra le Chiese d’Oriente e quella di Occidente, conclusosi con reciproche scomuniche.

SVOLTA COSTANTINIANA

Il Scriba Valdemir Mota de Menezes leggere il testo qui sotto e raccomanda come una lettura illuminante sulla storia della Chiesa. Fonte: http://digilander.libero.it/longi48/Chiesa%20Antica.html LA SVOLTA COSTANTINIANA Costantino nacque il 27 febbraio 285 a Naissos in Dacia da genitori pagani, Costanzo Cloro ed Elena, non legati da matrimonio legittimo, poiché lui era un generale dell’esercito romano e lei una semplice locandiera. Essa, dopo alcuni anni dalla nascita di Costantino, fu ripudiata da Costanzo per motivi politici. Ci penserà, comunque, Costantino a riabilitare sua madre assegnandole nel 306 il titolo di nobilissima formina, innalzandola alla condizione nobiliare e, più tardi, le assegnerà il titolo di augusta, cioè di imperatrice-madre. Costantino fu allevato a Nicomedia alla corte di Diocleziano e dopo l’abdicazione di questi nel 305, si rifugiò presso il padre, signore della parte occidentale dell’impero. Lo accompagnò in una campagna militare in Inghilterra, dove a York, dopo la morte del padre, venne proclamato imperatore nel 306, all’età di 22 anni circa. Egli consolidò il suo potere nella parte occidentale dell’impero e nella battaglia del 312 al ponte Milvio, alle porte di Roma, contro Massenzio si assicurò il potere assoluto su tutto l’impero che condividerà con suo cognato Licinio, che verrà sconfitto da Costantino nel 324 e ucciso. Elena influì molto su Costantino, che si convertirà, grazie a lei, al cristianesimo; mentre Costanzo, suo padre, praticava una specie di monoteismo paganeggiante e assai tollerante in fatto di culti. Con la salita al trono di Costantino nel 312, dopo la definitiva sconfitta di Massenzio al ponte Milvio, la chiesa subisce una trasformazione epocale, passando non solo a religio licita ma addirittura a religione ufficiale dello Stato e dell’Impero romano e cessa, quindi, di essere perseguitata. Infatti, Costantino intuisce che il cristianesimo era ormai ampiamente diffuso in tutto l’impero ed era inestirpabile e che, inoltre, costituiva una forza nuova e vitale utile per il rinnovo dell’Impero e per il suo amalgama. Pertanto, dal 313 al 330 d.C., avvia una serie di riforme favorevoli al cristianesimo per riconciliare la Chiesa allo Stato, dopo lunghi secoli di persecuzioni e atteggiamenti ostili e diffidenti. La Chiesa bizantina lo considera santo, l’uomo della provvidenza; mentre storici non cristiani ritengono che egli abbia messo le premesse per il crollo dell’Impero romano e della sua cultura e che si sia avvicinato al cristianesimo per pura opportunità. Molto probabilmente egli si avvicinò anche per convinzione; infatti proveniva da una famiglia sostanzialmente religiosa che lo ha indirizzato alla ricerca del vero Dio e il clima familiare era prevalentemente filo-cristiano. Decisivo fu l’atteggiamento assunto da Costantino verso il cristianesimo che, in quanto imperatore, aveva creato un ambiente generalmente favorevole e un flusso di famiglie nobili e altolocate dal paganesimo al cristianesimo. Già dal 313 e fino al 330 Costantino adotta una serie di provvedimenti e atteggiamenti filo-cristiani: - Vieta di bollare in faccia i condannati ai lavori forzati o ai giochi nel circo, perché, afferma, l’uomo è immagine di Dio; - Riconosce ai cristiani di dare la libertà ai propri schiavi davanti al vescovo; - Concede capacità giuridica e di giudizio ai vescovi per le cause civili, con piena validità - Libera da sanzioni i celibi e i senza figli, per rispetto allo stato ascetico in uso presso la chiesa primitiva. - Ordina il riposo nel giorno della domenica per i tribunali e i lavori manuali, in omaggio al giorno del Signore, festeggiato dai cristiani. - Stabilisce che chiunque può lasciare in testamento i propri beni alla Chiesa. - Vieta l’aurispicia privata, ma non quella pubblica; - Fa larghe sovvenzioni alle chiese, tendendo a restringere quelle per i culti pagani Costantino si considera “vescovo per quelli di fuori”, cioè colui che facilita l’ingresso dei pagani nel cristianesimo. In qualità di pontifex maximus (sommo sacerdote) si preoccupò sempre sinceramente del buon andamento delle strutture ecclesiastiche e della vita della Chiesa. E quando l’impero era in subbuglio per la questione ariana egli, per pacificare la chiesa e di conseguenza anche l’impero, convoca il concilio di Nicea nel 325. La vita pubblica e sociale assume un’impronta sostanzialmente, anche se non definitivamente, cristiana. Costantino oltre ai privilegi giuridici e amministrativi, mostrò tutta la sua simpatia e il suo mecenatismo verso il Cristianesimo. In questo clima di pace la Chiesa progredisce vistosamente e si sviluppa intensamente l’attività teologica. Costantino, poco prima di morire si fece battezzare. Ciò corrisponde ad un uso frequente a quel tempo, poiché le colpe gravi commesse dopo il battesimo erano sottoposte ad una dura penitenza nella chiesa, per cui si cerca di rimandare il battesimo verso la fine della vita, quando le occasioni di colpe gravi erano prevedibilmente scemate. Egli morirà il 22 maggio del 337. Al di là di ogni valutazione di parte o contro, si può ben dire che Costantino fu uno spirito profondamente religioso e bene intenzionato nei confronti della Chiesa e del cristianesimo in genere. EVOLUZIONE DELLE RELAZIONI TRA STATO E CHIESA NEL IV° SEC. Esse possono essere idealmente divise in tre epoche: 1° epoca: Costantino si mostra favorevole alla Chiesa, ma ne rimane fuori dalle dispute, se ne astiene da tutti i problemi. 2° epoca: Costanzo II, figlio di Costantino, pretende di essere il pontifex maximus e interviene nelle sue faccende in modo pesante, creando notevoli problemi interni alla Chiesa. Essendo egli filo-ariano decreta in favore dell’arianesimo, ma i vescovi cristiani ortodossi si oppongono ed egli li esilia. 3° epoca: Sotto Teodosio il Grande il paganesimo subisce progressive restrizioni: ogni azione cultuale pagana fu proibita e i templi e santuari pagani vengono distrutti. Ora è il paganesimo ad essere perseguitato. In quest’epoca i rapporti tra Stato e Chiesa tendono a distanziarsi. Significativo fu l’intervento di Ambrogio contro l’imperatore Teodosio che aveva fatto massacrare 7000 cittadini raccolti in uno stadio per vendicare la morte di un suo funzionario. Ambrogio scomunica l’imperatore e lo sottopone a penitenza. Questo episodio sta a significare che anche l’imperatore è un cristiano e deve sottostare, per quanto riguarda il suo comportamento morale, alla Chiesa. Ambrogio dirà all’imperatore che a lui spetta garantire la libertà e al prete dire la verità; in altri termini, ognuno faccia il proprio lavoro a casa sua senza interferire in casa degli altri; è l’applicazione del “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Nel 380 Teodosio con l’editto Cunctos populos stabilisce la religione cristiana quale religione imperiale. Con questo decreto l’impero torna ad avere una religione ufficiale, che sostituisce quella pagana tradizionale. Stabilisce, inoltre, che i cristiani siano chiamati cattolici e gli altri cristiani che si pongono fuori, eretici. Teoria della Sinfonia Gli stretti rapporti tra Stato e Chiesa e le reciproche ingerenze trovarono in Eusebio di Cesarea la loro giustificazione teologica. Eusebio era uno strenue sostenitore di Costantino nel cui avvento vede la realizzazione delle più alte speranze cristiane. Esso appare agli occhi di Eusebio come un secondo salvatore, un emissario di Dio mandato per strappare il cristianesimo dalle persecuzioni. Ben vedeva, dunque, Eusebio l’interessamento di Costantino verso la Chiesa e i suoi problemi. Nell’ambito di quest’ottica Eusebio formulò una teoria giustificatrice di questo stato di cose che, invece, provocò non pochi problemi e seccature alla Chiesa. Questa teoria fu denominata della “Sinfonia” che espose adottando lo schema neoplatonico del tempo: Dio, Logos, Cosmo. D I O – PANTOKRATOR L O G O S Attuatore della volontà di Dio Per mezzo di due vie Popolo di Israele, Impero Romano, via parziale, ma via implicita, ma esplicita universale LOGOS INCARNATO Riassume in se le due vie C H I E S A Incarna il Logos e si fa universale per mezzo dell’Impero Romano Al vertice, afferma Eusebio, ci sta Dio, creatore di tutte le cose, il pantokrator, il quale per entrare in rapporto con l’uomo si serve del Logos, intermediario tra Dio e il mondo. Il Logos, dunque, non solo fa da intermediazione, ma è anche l’attuatore della volontà divina nel Cosmo. Per fare ciò egli utilizza due vie: il popolo di Israele, che per le sue piccole dimensioni è una via parziale, ma esplicita, nel senso che ha coscienza di essere strumento e sacramento di Dio nella storia; e l’Impero Romano, che è la via implicita, nel senso che non ha coscienza di essere lo strumento che realizza il disegno di Dio, tuttavia, ha il vantaggio di avere una enorme organizzazione ed espansione in tutto il mondo allora conosciuto, facilitando il diffondersi del cristianesimo a cui, con l’avvento di Costantino, dava anche un concreto e valido supporto apostolico. Tra le due vie si pone di mezzo l’incarnazione del Logos, concepito come sintesi delle due vie, sia perché è l’espressione massima e matura dell’Israele storico, sia perché nato nel bel mezzo dell’Impero Romano, di cui la Palestina fa parte come provincia. Dal Logos viene generata la Chiesa, presente in esso, per cui anche la Chiesa assume le caratteristiche di questo Logos: universalità e testimone della volontà di Dio in mezzo agli uomini. Pertanto Chiesa e Stato altro non sono che due facce della stessa medaglia, cioè del Logos. Di conseguenza tra i due non c’è contrapposizione, ma reciproca collaborazione e integrazione, pur nella distinzione, ognuno, delle proprie competenze, per cui l’Imperatore deve lasciarsi condurre dai vescovi e dal papa e questi trovare il loro aiuto e appoggio per il compimento della loro missione nell’Imperatore. Conseguenza di questa Sinfonia sono i normocanoni, per cui i canoni della Chiesa sono recepiti come proprie leggi dallo Stato. Da qui ne discende che le eresie furono perseguite non solo in quanto destabilizzanti l’integrità dell’Impero, ma anche perché erano violazioni di leggi civili dello Stato. Questo schema che giustifica una reciproca implicazione tra Stato e Chiesa aiuta anche a capire le Chiese ortodosse che fino ai nostri giorni sono in stretto legame con lo Stato. La Chiesa di fronte allo Stato e all’Impero Prima della venuta di Costantino l’attività missionaria era rivolta esclusivamente ai singoli, cercando di convincerli e di convertirli. Dopo Costantino, i compiti della Chiesa cambiano radicalmente. Infatti l’attività non è più mirata al singolo, ma rivolta ad una intera società, ad un intero Impero. Non si trattava più di convincere e di convertire, ma di gestire secondo criteri e principi cristiani un’intera società a livello mondiale. L’azione sociale della Chiesa, in questo IV° secolo, interviene su tre aree fondamentali del vivere civile e sociale: - Famiglia - Disuguaglianze sociali - Cultura e divertimenti Famiglia Due erano le questioni principalmente affrontate dalla Chiesa: l’indissolubilità del matrimonio e la Patria potestas. Nell’ambito del diritto romano erano previsti tre tipi di matrimonio: - Uno a sfondo religioso, durante il quale i coniugi consumavano una focaccia di farro davanti al pontifex maximus; - Uno a sfondo, per così dire, laico, avveniva per coemptio, cioè il marito comperava letteralmente la moglie che diventava di sua proprietà; - Uno caratterizzato dall’usus, basato sul principio dell’usucapione, cioè un possesso che protrattosi nel tempo, portava alla proprietà dell’oggetto. A fianco del matrimonio si affiancava abbastanza diffusamente il concubinato. Il diritto romano era sostanzialmente favorevole alla indissolubilità del matrimonio, ma era aperto anche al divorzio in determinate circostanze. Altro problema che si poneva nell’ambito del matrimonio era quello contratto tra schiavi: il padrone poteva liberamente vendere separatamente i coniugi, distruggendo famiglie e creando drammi. Il pater familias era il capo assoluto del nucleo familiare, comprendente la moglie, i figli, gli schiavi e il patrimonio. Solo alla morte del padre finiva la patria potestas, alla quale i figli rimanevano sottoposti anche in età maggiore. Il potere paterno era evidente fin dalla nascita dei figli, che potevano essere anche abbandonati se non accolti dal pater familias. I figli abbandonati venivano venduti come schiavi o avviati alla prostituzione. Inoltre il pater familias aveva diritto di uccidere la figlia colpevole di adulterio. Come si può vedere la situazione della famiglia e lo strapotere del pater rendevano la situazione familiare gravemente pesante e lesiva della stessa dignità umana al punto tale che anche Ottaviano Augusto emanò delle apposite leggi tra il 18 e il 9 a.C. che puntavano ad un riordino della vita matrimoniale e familiare in genere. Di fronte allo strapotere del pater familias la Chiesa interviene cercando di far recepire che la paternità, ancor prima di essere un potere sugli altri, è anzitutto un dovere verso gli altri, di cui si ha la responsabilità, e che deve radicarsi nell’amore. Fu questo un notevole salto di qualità che cozzava contro una mentalità radicata da secoli. Lentamente si sviluppa una teologia del matrimonio e della famiglia, intesa come chiesa domestica (S.Crisostomo). Disuguaglianze sociali Parlare della questione sociale significava parlare sostanzialmente della schiavitù e del divario tra ricchi e poveri. Nel IV° sec. la Chiesa si muove su due linee; per quanto riguarda la schiavitù, questa viene dichiarata non accettabile, perché Dio vuole uguali tutti i suoi figli. Da questa affermazione di principio si doveva, poi, passare all’attuazione che si rivelò alquanto complessa; infatti non tutti gli schiavi volevano diventare liberti, poiché in tal modo oltre che perdere una identità sociale, sia essa pur umile, veniva persa anche la protezione e la sicurezza esistenziali. C’era, inoltre, anche un problema di ordine sociale ed economico; infatti la popolazione romana era composta per circa un 80% di schiavi e un 15-20% di liberi. Da ciò appare chiaramente che c’era tutta una struttura sociale ed economica che si reggeva sulla schiavitù. Togliere la schiavitù era solo un buon proposito, ma non attuabile in quanto che si sarebbe intaccata la struttura e di conseguenza l’esistenza stessa della società dell’epoca. Per cui la Chiesa dovrà muoversi nell’ambito di una umanizzazione della vita dello schiavo, facendo maturare ai padroni che questi erano esseri umani, figli di Dio. In tal senso, circa tre secoli prima, S.Paolo si muoverà nella sua lettera a Filemone a favore dello schiavo Onesimo. Altro aspetto che affliggeva la vita sociale romana era il netto divario tra ricchi e poveri. A fronte di tale problema i vescovi presero posizione contro la proprietà privata, non nel senso di un marxismo ante litteram, bensì una contestazione di una situazione di grave ingiustizia, in cui il solo 4-5% aveva in mano tutte le proprietà, mentre il restante 95% non possedeva nulla. Da parte della Chiesa veniva invocato il buon uso dei beni, nel senso che questi hanno una destinazione universale per il bene di tutti e non per il godimento di pochi, mentre la proprietà esclusiva dei beni si traduceva in oppressione; a sostentamento di tale tesi veniva portato il racconto biblico della vigna di Nabot, dove Acab re di Samaria, pur di avere proprietà maggiore, fa uccidere il buon Nabot e si appropria della sua vigna. E’ sempre in questo secolo che la Chiesa si occupa dell’assistenza ai poveri, sia fisica che spirituale. Basilio si dedicò a loro cercando anche di formarli, di educarli, rendendoli edotti dei loro diritti e cercando di dare loro un lavoro per il proprio sostentamento. Tanti erano i poveri accorsi che vicino a Cesarea sorse una quasi città fatta di poveri desiderosi di una loro affermazione sociale, che il popolo chiamò Basileide. Tale fatto sociale fu talmente rivoluzionario che fece intervenire l’imperatore che sollecitava Basilio a moderare i suoi interventi a favore dei poveri per non sovvertire l’ordine e l’assetto sociali. Cultura e divertimenti Un altro settore dove la Chiesa fece sentire la sua presenza fu nell’ambito della cultura e dei giochi. Nelle scuole, infatti, ai giovani veniva proposta ancora una cultura squisitamente pagana, fondata sui classici greci e latini. Basilio intervenne non proibendone la lettura, ma cercando di recuperare quel fondo di umanità e di verità che anche i classici pagani portavano in loro e che formava il punto di contatto con il cristianesimo. Quanto ai divertimenti, la Chiesa si dovette scontrare duramente con tradizioni e mentalità decisamente pagane e del tutto inaccettabili da parte del cristianesimo, come ad esempio i giochi gladiatori, le gare di corsa con bighe o quadrighe nel Circo Massimo, le recite nei teatri, spesso licenziose.

LETTERATURA CRISTIANA NELL’EPOCA DELLE PERSECUZIONE

Il Scriba Valdemir Mota de Menezes leggere il testo qui sotto e raccomanda come una lettura illuminante sulla storia della Chiesa. Fonte: http://digilander.libero.it/longi48/Chiesa%20Antica.html LA LETTERATURA CRISTIANA NELL’EPOCA DELLE PERSECUZIONE L’apologia Con il termine apologia (dal greco apologia che significa difesa, giustificazione) si designa un tipo di letteratura sorta nel II° secolo e volta a difendere il cristianesimo dagli attacchi delle persecuzioni, delle dicerie contro i cristiani e la loro dottrina e contro il paganesimo. I maggiori apologisti del II° secolo furono Giustino e Tertulliano. Lo schema fisso su cui è strutturata l’apologia è triplice: - Denuncia dell’ingiustizia della persecuzione, su cui non ci si sofferma molto; - Critica dei costumi pagani e dell’idolatria; anche qui l’esposizione è breve; - Presentazione del messaggio cristiano a cui si dava molto spazio e che nella sua esposizione seguiva una triplice linea di sviluppo: a) presentazione del credo cristiano; b) esposizione del culto; c) condotta di vita dei cristiani. Le apologie, ovviamente, erano rivolte al mondo esterno che era di costumi pagani e mentre la cultura imperante era quella greco-romana. Si pose, quindi, il problema di come comunicare il messaggio cristiano e cioè che Gesù è il Cristo e il Signore. Termini questi che, per loro natura, erano equivoci per il mondo greco-romano. “Dominus” o Kuruoj erano titoli che venivano dati ai sovrani o all’imperatore; mentre Cristoj, traduzione letterale dell’aramaico Meshia, significa l’unto del Signore, espressione del tutto incomprensibile in questo tipo di cultura. Come fare, dunque? Gia apologisti hanno, pertanto, sfruttato la filosofia neoplatonica, che, molto diffusa nel II° secolo, formava lo spirito e la mentalità dell’epoca, facendo cultura e tendenza. Questa filosofia, a carattere religioso ed etico, spiegava l’universo secondo uno schema tripartito: D I O Essere supremo irraggiungibile e sconosciuto, avvolto nel silenzio e immobile L O G O S Intermediario tra Dio e il Cosmo C O S M O Al vertice di tutto ci sta DIO, essere supremo, irraggiungibile, avvolto nel silenzio e inconoscibile per l’uomo, immobile (Tertulliano lo chiamerà il Deus otiosus). Sotto ci sta il cosmo, regolato da leggi naturali, eterne, immutabili e necessarie; queste costituiscono il divino incarnato nel cosmo. Ma come è possibile che un qualcosa del sommo Dio sia in parte nel mondo? Come è possibile che un eterno, immenso, immutabile sia presente in una realtà mutevole, finita e corruttibile? Ci deve essere un qualcosa che fa da intermediario e che collega l’irraggiungibile e l’inconoscibile Dio eterno e immutabile con il mondo. Questo è il LOGOS. Scopo del filosofo non era quello di capire Dio che, in quanto tale, era inconoscibile e irraggiungibile, ma il Logos, raggiungibile con la sola ragione e, quindi, a portata di uomo. Conoscere il Logos significava avere la chiave di lettura della vita, conoscere le regole che normano il mondo e la natura; per apprenderle valeva il detto “vivere secondo natura”. E poiché nella natura erano inserite le leggi eterne, frammenti di Dio inseriti nel mondo, vivere secondo natura significava riconoscere queste leggi e conformare a queste la propria vita; significava, così facendo, onorare e rispettare la divinità presente nel cosmo. Ora ciò che garantiva l’ordine della vita e la solidità dei rapporti sociali, dando stabilità e sicurezza, era la Legge romana; in essa, dunque, è presente il Logos; per cui il buon cittadino è colui che conforma il proprio vivere alla legge romana, espressione concreta delle Leggi eterne e divine presenti nel mondo. Ed ecco, ora, gli apologisti, inserendosi in quest’ordine culturale e filosofico, affermano che loro conoscono il Logos e che questo è stato loro rivelato. Questo Logos ha un nome, si chiama Gesù. Così dicendo, gli apologisti volevano evidenziare che questo Logos-Gesù, proprio perché Logos, doveva interessare a tutti, perché tutti sono in relazione e dipendenti dal Logos. Diventare cristiani, quindi, non significa rinnegare la religione dei padri e la sapienza degli antichi, ma, anzi, è ritrovare la pienezza della rivelazione del Logos degli antichi. Affermano, inoltre, che tutto ciò che è buono nelle religioni pagane non solo non contraddice il Logos, ma è, anzi, una anticipazione del cristianesimo e di questo Logos la cui piena rivelazione è stata data ai cristiani. Così dicendo gli apologisti dimostrano che i cristiani, ben lungi dall’essere nemici del genere umano, sono anzi in stretta simpatia con il mondo e il resto delle religioni che contengono frammenti di Logos. Spiritualità del martirio Il termine martire, dal greco martur, testimone, è introdotto con significato nuovo e peculiare dal cristianesimo. Nessuna religione o filosofia aveva avuto presso i pagani dei martiri e, in senso stretto, neppure presso il Giudaismo che ebbe sì delle persone che sacrificarono la propria vita, ma solo per non tradire la religione dei loro padri (v. i tre giovani nella fornace, i Maccabei, ecc.). Il cristianesimo, invece, introduce il termine martire proprio nel senso di testimoni della risurrezione, del messaggio e della persona di Gesù Cristo, che proclamavano il Signore. Tuttavia, fin dall’inizio questa testimonianza è accompagnata da sofferenze e da minacce e, infine, dalla testimonianza estrema espressa con il sacrificio della vita, non solo per non tradire la loro fede, ma soprattutto per affermare l’unicità di Dio per tutti gli uomini, incarnatosi in Gesù detto il Cristo e il Signore. In tal senso, come afferma Origene, “chiunque rende testimonianza alla verità, sia in parole che opere, sia sostenendola in qualsiasi modo, può veramente essere chiamato martire” Per Igniazio di Antiochia, nella lettera ai Romani, il martirio è la partecipazione mistica alla morte e risurrezione di Cristo; e il giorno della morte è per i martiri il “dies natalis”; è un imitare la passione e morte di Cristo, è un associarsi a lui; è, per Origene, un secondo battesimo più grande del primo. Quindi, ciò che distingue i martiri cristiani dagli altri, come dice S.Agostino, “non è la pena, ma la causa” del martirio. Il martirio ha delle somiglianze con il Vangelo: come questo deve essere accolto liberamente, sì, ma integralmente e non è barattabile, così il martire diventa testimone di una fede e di una realtà che non scende a compromessi. Il martirio, inoltre, si propone come una visione nuova del mondo e alternativa di quella propria di quel tempo: a un mondo fatto di sopraffazione, di rapporti di forza e, in ultima analisi, di violenza, il martire propone una visione del mondo fatto di amore, di riconciliazione e di perdono; a questo mondo egli ci crede al punto tale da sacrificare la sua vita e ciò diventa testimonianza. Il martirio, inoltre, consolida la comunità cristiana che legge in questo la forza dello Spirito e la presenza di Dio nel martire; in ciò la comunità trae forza e coraggio. Il martirio, dunque, è concepito dalla comunità quale carisma dello Spirito. I cristiani, infatti, andavano a trovare in carcere i martiri quasi come ad un pellegrinaggio spirituale, coscienti che in essi c’era viva la presenza dello Spirito. Il martirio, infine, ha consolidato i valori fondamentali della vita, che formano la base di una nuova società e di una nuova epoca: essi propongono una nuova visione della vita e della storia. Nell’antichità questi valori erano incentrati negli eroi, idealizzazioni delle aspirazioni umane, pronti a morire per la Patria e per la Verità. Egli è colui che si autoafferma sugli altri e si avvicina agli dèi staccandosi, quasi con disprezzo, dagli uomini comuni. La sua morte è sempre un morire in dispregio agli altri che non lo capivano; il suo morire è un atto di superiorità rispetto agli altri. Al contrario, il martire non muore in disprezzo ad un mondo che lo rifiuta, mettendosi sopra agli altri, ma recepisce la sua morte come un dono dello Spirito all’umanità, una testimonianza di valori superiori per i quali vale la pena perdere la vita; il morire del martire, quindi, si trasforma in un atto di amore e di donazione di sé, in una testimonianza di una realtà superiore che interpella l’umanità e la invita ad accoglierla. Tra i martiri e gli eroi c’è un trapasso di ideali e una visione completamente diversa. Le testimonianze e lo spirito del martirio, tuttavia, sono documentati da alcuni scritti quali : Atti dei Martiri Sono verbali di processi compilati dalle autorità in cui vengono riportati gli interrogatori, le sentenze e le pene inflitte. Erano pubblici e potevano, quindi, essere acquisiti da tutti. Sono, pertanto, documenti storici di indubbio valore perché ci dicono come si è svolto concretamente il processo. Le passioni Sono rapporti di testimoni oculari o contemporanei del martirio, dovuti ad iniziativa spontanea di cristiani, con aggiunte iniziali e finali, a scopo di edificazione. Non sono perciò autentici e diretti come gli atti. Esortazioni al martirio Erano scritti che sorgevano all’approssimarsi delle persecuzioni per preparare i cristiani alla dura battaglia, invitarli a non tradire e ad affrontare con coraggio il martirio. Le Leggende dei Martiri Sono racconti sorti intorno al IV° secolo a scopo di edificazione, e guardano al periodo delle grandi persecuzioni come ad un epoca eroica ed epica. Non sono storici, ma sono scritti per edificare e spingere a sopportare le sofferenze e le difficoltà della testimonianza e della vita. I cristiani scoprono che c’è una stretta relazione tra martirio e Vangelo. Infatti ci si chiede come predicare il Vangelo e convincere ad accoglierlo, considerato che il Vangelo, da un lato, non possiede sanzioni per chi non lo accoglie, ma,dall’altro, per chi lo accoglie è un messaggio assoluto, nel senso che non può essere preso solo in parte: o tutto o niente. Come , allora, convincere ad accoglierlo integralmente? Ecco la risposta: con la testimonianza di vita, cioè con il martirio, che è un modo nuovo di proporre il Vangelo. Quanti furono i Martiri? E’ impossibile dare una cifra anche approssimativa. Dai vari scritti pagani e cristiani abbiamo solo delle indicazioni di grandi quantità. Alcuni parlano di 50.000, anche se oggi, con il Ruiz Bueno, si può parla di circa 200.000, ma forse anche meno, quasi certamente non di più. L’EVOLUZIONE DELLA CHIESA TRA IL 150 – 300 D.C. I due testi fondamentali che testimoniano l’evoluzione delle chiese in questo periodo sono la Apologia di Giustino (160) e la Tradizione Apostolica di Ippolito (220). Tra il 150 e il 300 la Chiesa conosce una notevole evoluzione nell’ambito della propria organizzazione e delle strutture delle proprie comunità. Intorno al 155 d.C. l’organizzazione ministeriale è semplice: vi è un responsabile della comunità coadiuvato da dei diaconi. La celebrazione eucaristica è ancora una agape ed è ancora legata ad un pasto fraterno, all’interno del quale si fa memoria di Gesù morto e risorto e si consuma il pane e il vino consacrato. Ora, invece, come ci è testimoniato da Giustino nella sua Apologia la struttura gerarchica e la sua vita è più complessa. A capo della comunità c’è un vescovo, attorniato da un collegio di presbiteri e assistito dai diaconi. Di fatto il vescovo è il capo e il garante della comunità attorno al quale ruota tutta la vita della chiesa locale. Esso è, secondo Ippolito, il rappresentante di Dio in mezzo alla comunità e rappresenta la comunità davanti a Dio. Inizialmente c’era un vescovo per ogni comunità, ma successivamente, con il proliferare delle comunità, il vescovo delegava la responsabilità a dei presbiteri, mentre lui assumeva la direzione e la responsabilità delle chiese presenti in una determinata regione. La necessità di omogeneizzare l’organizzazione delle comunità e di trovare delle comuni soluzioni ai vari problemi di fede, spingeva i vescovi a riunirsi tra loro: nascono così i primi sinodi. Ancora non si rileva la preminenza di un vescovo sugli altri, benché la chiesa di Roma fungesse già da tacito punto di riferimento, in quanto essa si richiamava agli apostoli Pietro e Paolo; godeva, in buona sostanza, di una sorta di primato d’onore, e questo porterà gradualmente il vescovo di Roma ad assumersi un ruolo di guida. Il Battesimo era il rito sacramentale di entrata nella chiesa del catecumeno. Esso era preceduto da un periodo di catecumenato, che doveva essere abbastanza lungo e che nella chiesa di Roma era di 3 anni. Il catecumeno partecipava alla vita di comunità, ma al momento dell’eucaristia veniva mandato fuori, perché non ancora pienamente inserito nella comunità e nel corpo di Cristo. Durante il catecumenato il candidato veniva istruito sul senso delle Scritture e sulle principali verità di fede, ma già doveva, però, abbandonare il suo vecchio stile di vita pagana per conformarsi alle norme di vita cristiana. Esso non aveva schemi fissi, ma variava da comunità a comunità. Il catecumeno, nella notte di Pasqua, veniva battezzato per immersione o per aspersione in particolari situazioni che impedivano l’immersione. L’immersione aveva il significato di immergersi in Cristo per poi uscirne creatura nuova e il “tre volte” stava ad indicare che la sua vita era ora immersa in quella trinitaria e ne faceva parte. Il battesimo rimetteva i peccati e apriva ad una vita nuova in Cristo e consacrava a Dio il battezzato e donava lo Spirito Santo. Esso veniva dato inizialmente solo agli adulti e soltanto in tempi successivi allargato ai bambini e comportava una confessione di fede, consistente in un semplice “credo”. L’atto battesimale era seguito da una imposizione delle mani e da un’unzione a significare il dono dello Spirito. Tale prassi verrà poi disgiunta successivamente e costituirà un sacramento a se stante: la confermazione o cresima, in cui il bambino battezzato, divenuto adulto, confermava la fede ricevuta e si decideva coscientemente per il Cristo. L’Eucaristia veniva celebrata ogni domenica di notte o al sorgere del sole, richiamandosi chiaramente alla risurrezione di Cristo che nell’eucaristia veniva celebrato. Una tale testimonianza ci è stata tramandata nella lettera di Plinio il Giovane (112 d.C.) inviata all’imperatore e amico Traiano. L’eucaristia fino al 150 d.C. era una semplice agape, cioè un banchetto, richiamato anche da Paolo nella prima lettera ai Corinzi, in cui ognuno portava del cibo mettendolo in comune; durante o alla fine del banchetto il presidente prendeva del pane e del vino e ripeteva le parole dell’ultima cena; alla fine il pane consacrato veniva distribuito perché venisse portato agli ammalati. Successivamente l’eucaristia subì una evoluzione e si componeva essenzialmente di due parti: la prima comprendeva delle preghiere comunitarie, delle letture e loro spiegazione; la seconda comprendeva la vera e propria celebrazione eucaristica, la cui preghiera eucaristica, fino al 150 d.C. circa, il celebrante ancora improvvisava secondo le sue capacità; ma intorno al 200 Ippolito ne redigeva un testo fisso che proporrà come modello. L’etica cristiana si esprimeva in termini molto severi e incoraggiava i cristiani al digiuno e all’ascesi, anche se i fedeli in genere non li rispettavano perché non sempre all’altezza dell’ideale professato. Essi erano invitati a rinunciare ad ogni compromesso con il paganesimo e a praticare l’amore per il prossimo e la vita comunitaria. Tra il 150 e 300 sorgono le prime chiese a pianta basilicale; i cristiani hanno i loro cimiteri (catacombe); già si diffonde una prima pietà cristiana tra i fedeli. Dal 150 d.C. inizia i culto dei santi sotto forma di venerazione dei martiri sulle cui tombe ci si recava a pregare o anche a celebrare dei culti; si sviluppò la devozione delle reliquie e una teologia dei santi e martiri. Tutto ciò per significare che già in quest’epoca il cristianesimo era notevolmente diffuso e ben radicato all’interno della società in cui stava definendo la propria struttura comunitaria e liturgica, nonché la propria identità.

PERSECUZIONI SOTTO L' IMPERO ROMANO

Il Scriba Valdemir Mota de Menezes leggere il testo qui sotto e raccomanda come una lettura illuminante sulla storia della Chiesa. Fonte: http://digilander.libero.it/longi48/Chiesa%20Antica.html LE PERSECUZIONI Premessa Il termine persecuzione è molto generico e indica vari episodi che hanno plurime manifestazioni. Esse furono locali, centrali del potere o imperiali, cioè estese a tutto l’Impero. Le persecuzioni in genere fino all’anno 250 d.C. furono occasionali e sporadiche, per lo più locali e si differenziavano, per intensità e durata, in ciascuna provincia. Apparivano, in genere, come esplosioni di odio o rancore più che azioni proprie dello stato sistematiche e disposte preventivamente. Ci si muoveva in base ad un diritto di tipo generale, poiché mancavano leggi specifiche di merito. Sarà solo da Decio (250) in poi che le persecuzioni troveranno anche una base giuridica e saranno sistematiche ed estese a tutto l’impero. I cristiani erano colpiti come singoli o gruppi, ma mai come comunità ecclesiale. Una svolta in tal senso, invece, si avrà con Diocleziano che provocò un enorme danno alle chiese come comunità e puntava alla estirpazione sistematica non tanto dei singoli cristiani, quanto delle comunità stesse. Sotto di lui, infatti, furono distrutti luoghi di culto, libri sacri, fatti prigionieri e costretti alla abiura i capi delle comunità e poi uccisi e infine la persecuzione fu estesa indistintamente a tutti i fedeli. A seguito di questa feroce persecuzione, molti documenti sono stati distrutti e numerose testimonianze sono andate perdute; per questo ci è pervenuta poca documentazione sulla vita delle chiese dei primi tre secoli. Per questo periodo, reso cieco dalla persecuzione, prevalente punto di riferimento è l’opera di Eusebio “Storia ecclesiastica”. Le motivazioni I Romani hanno perseguitato i cristiani per motivi religiosi o politici? Porre questa domanda non è realistico, poiché questa distinzione rispecchia la nostra mentalità, ma non quella dei Romani per i quali politica e religione erano un binomio strettamente inscindibile: la religione era, da un lato, fondamento dello Stato e, dall’atro, era ad esso finalizzata. La tolleranza romana verso le varie religioni dei popoli conquistati era in realtà solo parziale; infatti la “Pax deorum” chiedeva di venerare gli dèi dell’Impero che hanno fatto grande Roma e l’hanno voluta come potenza imperiale. Vi era, quindi, un obbligo, quale segno di fedeltà e lealtà verso lo Stato, di venerare esclusivamente gli dèi di Roma. Fu solo successivamente, per tolleranza e convenienza politica, che i Romani concessero ai popoli vinti di continuare il culto dei loro dèi, ma con obbligo di anteporre a questi il culto di quelli romani. In genere, comunque, si può affermare che gli imperatori non furono dei sanguinari che avevano in odio i cristiani, ma restauratori della “pietas” romana verso gli dèi che si scontrava con il fermo rifiuto dei cristiani del politeismo e del culto all’imperatore. La questione delle persecuzioni, pertanto, non è un problema astratto, ma concreto e va ricercato, di volta in volta, nei comportamenti dei singoli imperatori e delle situazioni che ne circostanziavano le decisioni. Ciò spiega perché a lunghi periodi di tranquillità scoppiava, quasi all’improvviso, la persecuzione. Le cause delle persecuzioni si possono sostanzialmente raggruppare in due parti: - motivazioni politico-religiose; - motivazioni popolari. Motivazioni politico-religiose La “Pax deorum”, strettamente legata al culto pubblico, comportava l’obbligo da parte dei cittadini di tutto l’impero il culto degli dèi di Roma che si ritenevano il fondamento stesso della grandezza e potenza. Sottrarsi, quindi al culto pubblico era considerato un atto contro l’integrità dello Stato e dell’Impero e, pertanto, perseguibile. Inoltre, già con Giulio Cesare (54 a.C.) era invalso l’uso di divinizzare, dopo la sua morte, l’imperatore, benché, ancor prima, ci fosse stata la tendenza ad associare l’imperatore o le sue qualità alla divinità (ad es. a Roma si era costruito un tempio alla Clemenza di Cesare). Tale tendenza, nel corso del tempo, lentamente si trasformò in divinizzazione dell’imperato vivente con obbligo di culto divino. Ben presto il culto imperiale si consolidò diventando elemento di prova di fedeltà e lealtà verso lo Stato e l’imperatore. Non tutti gli imperatori, tuttavia, pretesero apertamente il culto alla loro persona, benché quasi tutti a partire da Ottaviano Augusto associarono al proprio nome l’appellativo di “divus” . Con Domiziano (81-96 d.C.), per la prima volta, si accentuò l’assolutismo e con questo, apertamente, si associò il culto divino alla sua persona; egli si faceva chiamare “Dominus et Deus”. E’ evidente che, posta in questi termini, per i cristiani la situazione diventava insostenibile, considerata la loro fermezza nel riconoscere un unico Dio e suo Figlio Gesù Cristo. Per questo loro rifiuto di sacrificare agli dèi di Roma e all’imperatore, essi furono accusati di ateismo e di essere nemici dello Stato. La loro religione, con l’atto giuridico del senatus consultum (delibera del senato) del 35 d.C., fu considerata “religio illicita”, cioè non riconosciuta dal Senato, che respinse la proposta di Tiberio (14-37 d.C.) di riconoscerla, invece, come “religio licita” non tanto per avversità contro il cristianesimo, ma per affermare la propria indipendenza dall’imperatore. Motivazioni popolari Accanto alle motivazioni politico-religiose che, comunque, non sempre furono determinanti per decidere di perseguire i cristiani, accompagnandosi quasi sempre con situazioni di difficoltà o di crisi interne dello Stato o dell’Impero, affiorarono anche motivazioni di tipo popolare, che si concretavano prevalentemente in credenze basate su chiacchiere e maldicenze, che si traducevano in diffamazioni nei confronti dei cristiani circa i loro riti e il loro stile di vita. Ciò succedeva perché i cristiani, diventati ormai numero consistente penetrato a diversi livelli sociali, sentiti come una società chiusa all’interno della società, conducevano una vita ritirata e non lasciavano trasparire chiaramente la loro dottrina e i loro culti. Questo modo di vivere, velato o occultato dal silenzio, provocò il sospetto dell’ambiente in cui vivevano e da qui la diffidenza e le accuse più assurde e irrazionali. Da un punto di vista sociale questo costituì una sorta di difesa da ciò che non si conosceva e che, quindi, si temeva. Le accuse, le più disparate, si traducevano in mormorazione su “culti delittuosi”, di “banchetti tiestei” durante i quali i cristiani avrebbero mangiato carne umana (eucaristia), su atti lussuriosi incestuosi (dall’uso dei cristiani di chiamarsi fratello e sorella); inoltre si attribuì loro la colpa di tutte le catastrofi naturali, le pestilenze e le disgrazie pubbliche per il loro rifiuto di sacrificare agli dèi. In genere furono accusati di “odium humani generis” per il loro rifiuto di partecipare alle cariche pubbliche, agli spettacoli del circo, per il loro vivere appartati e organizzati in comunità chiuse. Pertanto, i cristiani dei primi secoli vissero in una atmosfera ostile che sfociò, spesso, in misure di particolare violenza da noi chiamate persecuzioni. Si parlò di “dieci” persecuzioni romane. In realtà esse furono molte di più se si considerano tutti gli atti di repressione, di contrasto e processo; molte di meno se si considerano le sole repressioni sistematiche e generali avvenute, per altro, molto tardi (tra il 250 e il 305 d.C.). LE PERSECUZIONI L’epoca delle persecuzioni si estende dal 64 d.C. (Nerone) al 311 d.C. (editto di Galerio). Tale periodo può essere suddiviso in 4 fasi: 1° fase: fino al 100 d.C. circa, le persecuzioni si manifestano come fenomeni repressivi sporadici e occasionali. 2° fase: periodo che va da Traiano (98-117) a Marco Aurelio (161-180) in cui si cerca di regolare la questione cristiana per mezzo di rescritti. 3° fase: periodo che va dal 180 al 250, dalla morte di Marco Aurelio all’avvento di Decio, ci fu una situazione pendolare: di fatto i cristiani dovrebbero essere perseguitati, invece sono tollerati. Fu un periodo di sostanziale tranquillità in cui la Chiesa non solo poté espandersi, ma conquistò anche le classi aristocratiche e i funzionari dello Stato, consolidando, inoltre, la propria struttura. 4° fase: periodo che va dal 250 al 311: è l’epoca delle grandi persecuzioni di Decio (249-251); Valeriano (253-260); Diocleziano (284-305). Se le persecuzioni si considerano come atti ostili contro i cristiani, allora già nel 33 d.C. circa, vediamo la chiesa di Gerusalemme perseguitata dai giudei, ma solo contro gli ellenisti e tra questi, in particolar modo Stefano che venne lapidato. Un secondo atto persecutorio contro gli ebrei e i cristiani della comunità di Roma fu promulgato da Claudio, nel 49 d.C. con un editto di espulsione, per sanare radicalmente i disordini sorti, per l’appunto tra ebrei e cristiani, in quanto quest’ultimi erano molto attivi nel proselitismo. Vittime di questa espulsione furono Aquila e sua moglie Priscilla, che si rifugeranno a Corinto e diventeranno coadiutori di Paolo. Tuttavia se escludiamo questi due fatti episodici ed occasionali, una vera e propria persecuzione iniziò con Nerone a seguito dell’incendio di Roma. Nerone (54-68 d.C.) La persecuzione scatenata da Nerone nel luglio del 64 d.C. fu del tutto occasionale a seguito di un incendio che devastò Roma e di cui egli fu il colpevole. Quindi, per scagionarsi dalle accuse di aver provocato l’incendio e stornare da lui il furore popolare, accusò i cristiani, che perseguitò e condannò a morte in modi atroci : furono crocifissi, dati alle belve come spettacolo, usati come torce umane o rivestiti di pelli di animali selvatici e dilaniati cosi dai cani. La persecuzione durò un anno e si spense da sola. Nerone, comunque, al di là del fatto contingente, non elaborò mai una politica contro il Cristianesimo, né mostrò una ostilità persistente contro i cristiani. Tale persecuzione ci viene riportata da Tacito negli “Annales” al cap. 15,44 e accennata da Svetonio nella “Vita dei Cesari”, senza però alcun accenno all’incendio. Il fondamento giuridico di tale persecuzione si ritrova nel senatus consultum del 35 d.C. sotto Tiberio (14-37 d.C.) che dichiara il cristianesimo “religio illicita”. Essa fu limitata alla città di Roma e l’accusa non fu di aver appiccato l’incendio, bensì di odio verso il genere umano, che trovava il suo fondamento nella vita riservata dei cristiani e nel loro rifiuto di partecipare alla vita pubblica, al fine di evitare l’obbligatorio culto pubblico. Domiziano (81-96 d.C.) Dopo la persecuzione di Nerone, i cristiani godettero di un periodo di trent’anni di sostanziale tranquillità sotto Vespasiano e Tito. Con l’avvento di Domiziano, negli ultimi anni della sua vita, egli accentuò il suo assolutismo e, per primo, promulgò il culto all’imperatore anche da vivo. Egli si fece chiamare “Dominus et Deus” e pretese di conseguenza l’adeguato riconoscimento religioso, che trovò, ovviamente, l’opposizione e il rifiuto dei cristiani. Da qui la persecuzione che , secondo Lattanzio, fu di “efferata crudeltà”. Vittime di questa persecuzione furono suo cugino, il console Flavio Clemente, mentre sua moglie Flavia Domitilla venne esiliata. Numerose furono anche le vittime tra la società nobile, e ciò lascia trasparire il grande livello di penetrazione del cristianesimo. Altra vittima illustre fu Giovanni, esiliato nell’isola di Patmos dove scrisse l’Apocalisse. Nerva (96-98 d.C.) Con l’avvento degli Antonini si inaugura un periodo di distensione nei confronti dei cristiani; tuttavia per tutto il II° secolo la situazione è caratterizzata più che dalla persecuzione, da un clima di paura e di precarietà; i cristiani vivono, comunque, sotto la minaccia di denunce e torture. I loro timori derivano più che dalla crudeltà degli imperatori, dalla ostilità delle popolazioni pagane e giudaiche. Con Nerva cessa la persecuzione domizianea, perché egli non condivide la divinizzazione dell’imperatore come il suo predecessore. Traiano (98-117 d.C.) Con Traiano si cerca di regolamentare la questione cristiana in modo più civile e meno traumatico. Basilare, per il comportamento da tenere verso i cristiani, è la lettera di Plinio il Giovane (112 d.C.), governatore della Bitinia, con cui egli chiede delucidazioni al suo amico e sovrano Traiano sul da farsi nei confronti dei cristiani che gli vengono presentati. Traiano risponderà con un rescritto suggerendo che “i cristiani non devono essere ricercati, ma se sono accusati e sono convinti di colpa, bisogna punirli. [...] Quanto, poi, ai libelli anonimi non devono essere accolti ....” Dai due testi (lettera di Plinio e rescritto di Traiano) si evince quanto segue: - Non esistono leggi specifiche contro i cristiani; - Non si parla mai di persecuzioni di massa, ma di singoli casi di natura occasionale; - L’unico capo di accusa è quello di essere cristiani; - Le norme date da Traiano sono di ordine empirico più che giuridico, e per altro, sono anche contraddittorie, cosa che rileverà anche Tertulliano. Adriano (117-138 d.C.) Adriano assume un atteggiamento sostanzialmente equo e positivo nei confronti dei cristiani, rilevabile da un rescritto (128 d.C.) a Minucio Fundano, proconsole dell’Asia. In esso scrive “Se l’accusatore riesce a provare che i cristiani fanno veramente qualcosa contro la legge, tu puniscili secondo la gravità del delitto. Se, invece, qualcuno prende questo pretesto per calunniare, non lasciarti sfuggire tale colpa e punisci a dovere” Antonino Pio (138-161 d.C.) Anche Antonino Pio segue l’esempio dei suoi predecessori Traiano e Adriano; e in una lettera indirizzata all’assemblea federale dell’Asia vieta di incolpare i cristiani di ateismo e di perseguire, invece, chi ha loro ingiustamente dato fastidio. Secondo alcuni, però, questo scritto non è autentico, perché se così fosse i cristiani non potevano più essere perseguitati. Marco Aurelio (161-180 d.C.) Marco Aurelio, fu un filosofo stoico: All’inizio del suo governo si sommarono assieme una serie di sfortunate coincidenze (carestia, peste, barbari ai confini) che portarono alla sollevazione della plebe contro i cristiani accusati, per il loro ateismo, di essere la causa di tutti questi mali. Inoltre Marco Aurelio aveva una particolare antipatia verso i cristiani che accusava di “inerzia” in quanto che non partecipavano alla vita pubblica e alla pubblica carriera. Fu così che scatenò una violenta persecuzione contro i cristiani. Nonostante ciò Marco Aurelio non emanò alcun editto speciale, limitandosi a confermare le direttive di Traiano. Martiri di questa persecuzione furono Giustino con sei suoi compagni, e altri ancora. Con l’avvento di Comodo (180-192 d.C.), ultimo degli Antonini, vennero giorni più tranquilli per le chiese. Settimio Severo (193-211 d.C.) E’ un africano e intende ristabilire l’ordine nell’impero. Inizialmente fu tollerante verso i cristiani, ma in seguitò emanò un editto che proibiva sotto grave pena sia la circoncisione che il battesimo. Un provvedimento che tenta di impedire il progressivo diffondersi sia dell’ebraismo che del cristianesimo. La persecuzione durò solo alcuni anni. Massimino il Trace (235-238 d.C.) Fu il primo barbaro sul trono dei Cesari. Per odio contro i Severi che avevano protetto e favorito i cristiani, scatenò una persecuzione, ordinando di uccidere solamente i capi della Chiesa su cui pesava la responsabilità della diffusione del Vangelo. La persecuzione, che infierì particolarmente in Cappadocia e nel Ponto, durò pochi anni per sopraggiunta morte dell’imperatore. LE GRANDI PERSECUZIONI Decio (249-251 d.C.) Fu un militare rozzo e pieno di energie; quando salì al potere instaurò una politica di grande restaurazione dello Stato, ormai in piena decadenza. Per questo stabilì che tutti i cittadini, compresi i cristiani, facessero atto di lealismo agli antichi dèi e all’impero. Era, quindi, una manifestazione politica e religiosa che mirava al compattamento dei popoli e dell’impero. Al rifiuto dei cristiani, scatenò una persecuzione generale, sistematica e di massa, voluta con determinazione e precisa nelle procedure. In ogni località dell’Impero costituì una commissione di cinque persone con il compito di convocare davanti a sé gli abitanti, comprese donne e bambini, e di imporre loro di sacrificare davanti agli dèi o dell’incenso davanti alla statua dell’imperatore. A tutti quelli che accettavano veniva rilasciato un certificato di sacrificio (libellus). Chi, invece, rifiutava veniva sottoposto dalla commissione ad ogni sorta di pressioni: minacce, torture, prigione, fino alla morte. Fu una persecuzione inattesa, un fulmine a ciel sereno, e molti cristiani, presi dallo spavento, tradirono la fede: sono i famosi lapsi. Numerosissime furono le defezioni, molti sacrificarono agli dèi (sacrificati); altri ancora bruciarono incenso davanti alla statua dell’imperatore o degli dèi (thurificati); altri, infine, corrompendo la commissione, si procurarono dei certificati senza, però, tradire la fede (libellatici). Tutti quelli che, a vario titolo, cedevano erano automaticamente fuori dalla Chiesa, che subì una impressionante riduzione di effettivi in pochi mesi. In una chiesa così decimata e quasi priva di guida, assunsero una figura importante i confessores, cioè quei cristiani che per la testimonianza della loro fede erano imprigionati e rischiavano la morte da un momento all’altro. Essi furono meta di pellegrinaggio da parte dei lapsi, che venivano a chiedere il perdono, ricevendo da loro il libellus pacis con cui venivano reintegrati nella Chiesa, senza imporre loro nessuna penitenza. Quando vennero liberati essi conservarono gran parte del loro prestigio, entrando in concorrenza con un clero ormai indebolito. Questa concorrenza provocò due gravi scismi all’interno della Chiesa. In Africa, per la rigidità di Cipriano di Cartagine che non volle riammettere i lapsi se non in punto di morte, il sacerdote Novato e il diacono Felicissimo si opposero provocando uno scisma e furono scomunicati. Tuttavia, la paura di ulteriori conflitti interni suggerì alla Chiesa africana un più moderato atteggiamento verso i lapsi, ma ormai era troppo tardi: lo scisma si era consumato. A Roma il sacerdote Novaziano, che aveva sostenuto ad interim la cattedra del Vescovo di Roma, rimasta vacante dopo la morte di Fabiano per la durezza della persecuzione, si fece sostenitore di un forte rigore con i lapsi. Quando il clero di Roma elesse come vescovo Cornelio, Novaziano si fece eleggere a sua volta, prodigandosi per essere riconosciuto da tutte le chiese. Si produsse una forte tensione all’interno della Chiesa fino allo scisma. I martiri in questo periodo furono diverse centinaia, forse qualche migliaio. Per la strenua resistenza delle chiese, la persecuzione, durata circa un anno, andò lentamente scemando fino a terminare verso al fine dell’estate del 251. Valeriano (253-260 d.C.) Salito al potere durante l’estate del 253, fu inizialmente, nei primi quattro anni del suo impero, favorevole ai cristiani che vengono riammessi alla corte. Ma le situazioni di difficoltà militari e particolarmente finanziarie spinsero Valeriano, su istigazione del suo ministro delle finanze Macriano, a confiscare i beni dei singoli cristiani e delle chiese in genere. Caratteristica di questa persecuzione, equiparabile a quella di Decio, fu quella di impadronirsi delle ricchezze e dei beni delle chiese e dei cristiani. Pertanto, Valeriano promulgò due editti: - uno nel 257 con cui ordinava ai capi delle chiese di sacrificare agli dèi dell’Impero, pena il bando; e ai cristiani, pena la morte, proibì le assemblee di culto; - il secondo nel 258 con cui i capi delle chiese che si rifiutavano di sacrificare venivano puniti con la morte, mentre gli honestiores, cioè i membri delle classi elevate, venivano imprigionati e costretti all’abiura, diversamente mandati a morte e i loro beni confiscati. Questa persecuzione, assieme a quella di Decio, fu la più cruenta e terminò nel 259, quando Valeriano fu fatto prigioniero dei Persiani. Salì al potere il figlio Gallieno (260-268) che, preoccupato delle sorti dell’Impero, lasciò in pace i cristiani concedendo la libertà di culto e restituendo i luoghi di culto e i cimiteri confiscati. Con Gallieno ha inizio un altro quarantennio di pace fino al 300 circa. Diocleziano (284-305 d.C.) Con l’avvento di Domiziano al potere, l’Impero subisce una radicale riorganizzazione. Fu diviso in Impero d’Occidente e d’Oriente. Si suddivise in 4 prefetture, 12 dicesi e 96 province. Capitale dell’Occidente fu Milano e dell’Oriente fu Nicomedia. Roma rimase solo capitale onoraria. Assunse al governo dell’intero impero altri tre imperatori, costituendo una amministrazione imperiale formata da due Augusti coadiuvati da due Cesari: - Diocleziano, con il titolo di Augusto, insieme a Galerio, con il titolo di Cesare, governarono l’Oriente; - Massimiano, con titolo di Augusto, e Costanzo Cloro, con titolo di Cesare, governarono l’Occidente. In uno Stato così restaurato una Chiesa autonoma e saldamente gerarchizzata non poteva più essere tollerata all’interno dello Stato; occorreva una religione ufficiale sottomessa al potere che facesse da collante morale a tutto l’Impero. Diocleziano instaurò gli antichi culti pagani con obbligo per tutto l’Impero. A tal punto fu inevitabile lo scontro con lo Stato, che fu drammatico. La persecuzione scoppiò nel 301 circa su istigazione di Galerio che convinse Diocleziano che i mali di tutto l’impero erano da addebitarsi ai cristiani, come elementi disgregatori della società e negatori del culto ufficiale. Ma il vero ispiratore fu il filosofo neoplatonico Ierocle, proconsole della Bitinia, che combatteva il cristianesimo anche con gli scritti. Si cominciò con l’epurazione nell’esercito mettendo i soldati cristiani di fronte all’alternativa di sacrificare agli dèi o di essere espulsi dall’esercito. La fase più acuta della persecuzione si toccò nel 303 in cui Diocleziano emanò ben quattro decreti : - Nel primo si ordinava la distruzione dei luoghi di culto e i libri sacri bruciati; - Nel secondo ordinava l’incarcerazione dei capi delle chiese e la loro costrizione a scarificare; - Nel terzo condannava alla pena capitale coloro che si rifiutavano di sacrificare; - Nel quarto estendeva l’obbligo di sacrificare a tutti i cristiani indistintamente, sotto pena di torture e di morte. Nel 305 Diocleziano si dimette e sale al potere Galerio che continua la persecuzione in Oriente con tutta la virulenza del suo predecessore e cessa nel 311 con un editto di tolleranza del 30 aprile, sei giorni prima di morire divorato dal cancro. Gli succede Massimino Daia, più fanatico e oltranzista di Galerio; continuò con recrudescenza la persecuzione, che dovette, però, abbandonare verso la fine del 312 per intervento di Costantino; e il 30 aprile 313 venne sconfitto dal suo rivale d’Occidente Licinio, che ne sterminò i seguaci e conquistò le sue province. Nel 313 Licinio e Costantino si incontrano a Milano per consultarsi sulla situazione politica e religiosa dell’impero. In tale occasione non vi fu nessun editto, ma un semplice accordo che noi conosciamo grazie a due lettere scritte da Licinio. In esso si riconosce “ai cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede”. Ci si rende ormai conto che in vaste zone dell’impero non si segue più la religione dei padri, per cui, al fine di evitare continui e cruenti conflitti sociali, si decide di lasciare il culto della divinità alla coscienza di ciascuno, senza imporre obblighi. L’importante è non essere atei, poiché questo infrangerebbe la Pax deorum attirando l’ira degli dèi. Inoltre si provvede alla restituzione dei luoghi di culto ai cristiani. Con queste disposizioni si riconosce il fallimento delle persecuzioni e la forza del Cristianesimo. Il mondo pagano con quest’ultima persecuzione viene definitivamente sconfitto dal Cristianesimo e una nuova svolta epocale si apre per la Chiesa con l’avvento di Costantino.